La rivoluzione del web, e dei social, è stata quella di dare cittadinanza a tutte le nostre ossessioni, persino alle nevrosi individuali, ciascuna delle quali può trovare una comunità di riferimento. Così anche i nostri istinti peggiori diventano idee da coltivare. E da targhetizzare con la propaganda politica
Enrico Pedemonte, in un articolo pubblicato la settimana scorsa, affrontava il tema del rapporto tra l’evoluzione degli utenti della Rete e la nascita dei populismi. Vorrei sviluppare quel discorso con alcune osservazioni sul rapporto tra campagne elettorali e mezzi di comunicazione.
Molti sostengono che i mass media siano in grado di manipolare le opinioni del pubblico, altri pensano che la libertà di pensiero degli individui sia sostanzialmente autonoma dagli strumenti di persuasione. C’è un vizio di fondo in questo dibattito: entrambe le posizioni infatti immaginano che gli individui dispongano di un sistema di idee coerenti grazie al quale formulano il loro giudizio su qualunque argomento. Purtroppo non è così: al contrario, la mente gli individui è attraversata da una varietà di pensieri e di emozioni spesso in contraddizione tra loro, che si succedono spesso senza coerenza, formandosi e dissolvendosi secondo l’interesse del momento.
Un imprenditore che assume personale extracomunitario (disposto ad accettare salari più bassi rispetto ai dipendenti italiani) per fare l’interesse economico della propria impresa, può dare la propria preferenza politica a chi promette l’espulsione degli stranieri e la protezione della forza lavoro nazionale.
Decisioni e opinioni incompatibili possono convivere perché la mente (o il cuore, o l’anima, come si preferisce) non è una macchina a stati finiti e la coerenza non è il suo forte. Ogni ecosistema cognitivo (per esempio quello legato alla vita professionale e quello che condiziona le scelte elettorali) è spesso separato dagli altri e vive di regole proprie, modellate per creare l’ambiente più confortevole per l’individuo.
C’era una volta Berlusconi
Questa premessa ci permette di spiegare perché il pubblico è vulnerabile alla pressione della propaganda dei partiti e dei personaggi pubblici che riescono a coagulare in opinioni politiche le emozioni, i pensieri larvali, le riflessioni semicoscienti di ciascuno. In un certo senso è vero che le strategie di campagna elettorale, insieme ai mezzi di comunicazione che le veicolano, formano il loro pubblico. Questo non significa che siano in grado di iniettare orientamenti ideologici dove non esiste un terreno fertile per accoglierli; ma spetta a loro il compito di in-formare, di dare a questo materiale psicologico frammentato e disomogeneo una forma unitaria, quindi identità, etichette, coscienza e riconoscibilità; di prestare loro un dizionario, un linguaggio, purtroppo quasi sempre composto di formule banali e veloci, ma proprio per questo più idonee a conservarsi, a essere replicate e condivise, come accade ai memi dei nostri giorni.
Il modo in cui avviene questa operazione di informazione è molto cambiato negli ultimi vent’anni; e sarebbe anche opportuno distinguere i metodi che vengono seguiti negli Stati Uniti, a partire dalla prima elezione di Obama, da quelli che ancora dominano in Europa.
Se è vero, come osserva Pedemonte, che Silvio Berlusconi ha svolto quasi un ruolo da pioniere nella trasformazione delle campagne elettorali in vere e proprie operazioni di marketing, bisogna comunque riconoscere che l’apparato concettuale adottato dalla sua strategia di vendita apparteneva ancora alla tradizione politica delle ideologie. Per aggregare il consenso attorno al suo partito fresco di conio, e inclassificabile dal punto di vista delle posizioni tradizionali, Forza Italia è stata in origine definita dalla sua lotta a un potere comunista che nel 1994 non aveva più alcuna collocazione reale. La televisione appartiene alla famiglia dei mass media, e tiene fede alla sua vocazione rivolgendosi ad un pubblico di massa. La segmentazione degli interlocutori può obbedire a categorizzazioni con maglie molto larghe: canali, orari e palinsesti permettono di stabilire differenze di massima tra macrogruppi di età e di grado culturale: l’età della pietra rispetto alla profilazione che viene governata dagli algoritmi marketing dei nostri giorni. Di conseguenza, la tattica di comunicazione perseguita da Berlusconi vendeva l’adesione a un partito politico obbedendo alle regole della pubblicità che propina i prodotti dei supermercati; ma selezionava contenuti e promesse non lontani da quelli che hanno assicurato la maggioranza relativa alla Democrazia Cristiana dal dopoguerra fino alla fine della Prima Repubblica.
I social media e il microtargeting
La novità che sorge con il successo dei social media colpisce anzitutto la dimensione culturale di ciò che gli accademici chiamano sapere sociale, l’insieme dei temi e delle situazioni che esistono per tutti, perché tutti li riconosciamo come validi e rilevanti per la vita della collettività e di ognuno dei suoi membri. Fino alla diffusione di Internet, il sapere sociale era appannaggio esclusivo di chi era in grado di informare tutto il pubblico: il mondo editoriale (giornali, riviste, libri, radio, televisioni, cinema), quello accademico e quello politico. La loro selezione di fatti, il loro dizionario e i loro valori, modellavano il mondo in cui tutti abitavano. Le divagazioni individuali, le passioni o le ossessioni di ogni soggetto, non potevano trovare un loro pubblico, ed erano quindi destinate a rimanere una follia privata, da estinguere il prima possibile o da custodire come segreta mania personale.
La rivoluzione introdotta dalle comunità in Rete è stata quella di espandere i confini del sapere sociale fino ad includere quasi tutti i crampi mentali dei singoli, purché siano in grado di trovare qualche interlocutore che li condivida. Prima le bacheche online, poi i forum (con il contributo di Google che rende rintracciabile tutto), poi i social media, hanno contribuito a divulgare, a rendere riconoscibili e concrete le ossessioni di tutti coloro che trovano una comunità con cui condividerle. In altre parole, le comunità che si sono formate sui social media attuali (e sui loro predecessori dell’archeologia digitale) si fanno carico ora di offrire forma, identità, linguaggio e consistenza ontologica alle riflessioni momantanee, alle mezze idee, persino alle nevrosi degli individui: il compito un tempo ricoperto dai media e dalle ideologie politiche.
La dilatazione del sapere sociale ha indebolito il potere dei giornali e dei partiti politici di stabilire realtà e verità valide per tutti. In questo modo ha portato a una lenta agonia le ideologie e le concezioni universali della verità. Questo processo ha conseguenze positive o negative, secondo i punti di vista, ma non è questo ciò di cui vogliamo parlare qui.
La questione che ci interessa è che una strategia marketing come quella di Berlusconi non è più possibile in un mondo dove i centri di verità sono proliferati all’infinito: oggi i cittadini abitano una realtà frammentata almeno quanto le idee che attraversano la testa degli individui e il marketing politico deve aggiornare le proprie tecniche.
La campagna elettorale di Donald Trump ha il merito di aver mostrato con la massima chiarezza possibile il nuovo corso del marketing politico. Nel 2016, con oltre due milioni di preferenze popolari in meno di Hillary Clinton, Trump ha vinto le elezioni convincendo in modo chirurgico piccole comunità di elettori negli Stati della Rust Belt. Nel contesto che abbiamo descritto, l’incoerenza, o addirittura l’inconsistenza della promessa elettorale del candidato Trump non è uno svantaggio.
La società divisa in mille ossessioni
Quello che i mass media hanno bollato come una sequenza di farneticazioni, di contraddizioni, di assenza di sistematicità, è proprio ciò che ha permesso al team elettorale dell’attuale presidente di dialogare con piccolissime comunità, composte da poche unità di persone, ognuna delle quali è invischiata nei propri problemi e nelle proprie ossessioni locali.
Il punto di vista di Trump non è una concezione ideologica buona per tutti ma un franchising di istanze campanilistiche. La sua strategia di microtargeting è un’operazione di dialogo con la dimensione più ristretta (claustrofobica, autoriferita) dei rapporti sociali, in cui esiste solo la comunità locale e sparisce la collettività nazionale. Trump riconosce validità, e si propone come difensore, di tutte le rivendicazioni egoistiche locali, di cui conquista il consenso al di là della loro adesione (o meno) al suo punto di vista sull’economia, sulla società, sul razzismo – o a quello che gli viene di volta in volta attribuito.
I social media non sono in grado di modificare l’opinione delle persone, ma chi è capace di operare al loro interno cementa le convinzioni che si vanno formando all’interno delle microcomunità, le associa a un’istanza politica, e rende i suoi sostenitori ferocemente fedeli al leader che si propone come il suo alfiere e il suo braccio armato.
La Lega, tra antico e moderno
I politici europei non hanno mai raggiunto il grado di localizzazione e di precisione che il team di Trump ha saputo conquistare, grazie all’intervento di Cambridge Analytica. Come abbiamo già avuto modo di discutere, il successo della Lega e di Salvini è ancora legato a una tecnica marketing di vecchio stampo, anche se molto consapevole degli strumenti di pubblicazione offerti da Facebook. Una capacità e una sistematicità che mancano invece al PD, e in generale alle forze di sinistra. Tuttavia, il processo di dissoluzione delle ideologie e dei partiti che le rappresentavano, insieme alla crescita di interlocutori che si propongono come soggetti del dialogo con le micro-comunità, sembra inesorabilmente avviato anche dalle nostre parti.
La ricerca e la raccolta del consenso stanno diventando una disciplina autonoma rispetto all’amministrazione. Non si tratta di una devianza momentanea, ma di una direzione presa dalla cultura occidentale nel suo complesso. Le sue conseguenze sulla nozione di democrazia sono ancora tutte da sviluppare. In ogni caso, l’esigenza pragmatica di vincere le elezioni e di essere così legittimati a governare, impone a tutte le forze politiche (e al mondo dei giornalisti) di porre grande attenzione a questa novità, con cui occorrerà sempre di più fare i conti.