È Internet a produrre i Salvini?

La maggioranza degli italiani approda alla rete dopo il 2008. E oggi passa sei ore al giorno sul web in un mondo digitale sempre più personalizzato. Che ruolo ha avuto questa gigantesca migrazione sulla cultura collettiva? C’è un legame con il proliferare dei populismi? Facciamo alcune ipotesi

Mi ha molto colpito un recente Rapporto (TechVision 2019) che Accenture, la società di consulenza aziendale più grande del mondo, ha appena pubblicato a proposito di quella che definisce “la saturazione digitale della realtà” e della necessità non più rinviabile di “personalizzare” il rapporto con i consumatori. Non lo cito per occuparmi di comunicazione aziendale ma perché penso che un ragionamento simile possa essere applicato alla politica e agli strumenti attraverso cui oggi si forma la cultura collettiva. 

Da oltre vent’anni penso che la parola “personalizzazione” sia la chiave per capire l’impatto sociale delle tecnologie digitali: nel 1998 pubblicai un libro (Personal Media”, Bollati Boringhieri) che ripercorreva la strada dei media personali partendo dall’immediato dopoguerra. E credo che oggi non sia più possibile capire quello che sta accadendo, in economia e in politica, senza mettere quella parola al centro del discorso. Ma partiamo da “Tech Vision 2019”. 

La personalizzazione secondo Accenture

Secondo Accenture quella che stiamo vivendo è un’età dell’oro per le aziende che, “grazie ai nuovi ecosistemi digitali possono capire i clienti a livello granulare” e “fornire loro esperienze olistiche”. Ma per ottenere questo obiettivo devono attrezzarsi per offrire proposte sempre più personalizzate: “Due opzioni differenti, poi dieci, cento. (…) Nel mondo post-digitale ogni istante rappresenta un nuovo mercato per ogni individuo. La domanda è comunicata istantaneamente e la gratificazione è attesa immediatamente”. “Il mondo digitale è quello in cui la tecnologia rappresenta il tessuto della realtà che le aziende possono usare per incontrare la gente ovunque sia, in ogni momento”. Il cliente massa non esiste più: al contrario, ogni persona è un mercato a sé, che va conquistato conoscendone abitudini, tendenze, cultura, preferenze. 

Che cosa significa questo ragionamento applicato alla politica? Quando Silvio Berlusconi, all’inizio degli anni Novanta, teorizzò che la politica fosse una merce che poteva essere venduta come i pannolini, suscitò scandalo. Aveva ragione (ahinoi!), ma allora si riferiva a un pubblico massa da raggiungere con le sue televisioni. Le reti digitali hanno spostato a un livello superiore quella teoria. Cambridge Analytica, che nel 2016 collaborò alla campagna di Donald Trump per le presidenziali, ha dimostrato che la personalizzazione dei messaggi è il sale della nuova politica: ogni elettore è un mercato all’emporio delle idee (meglio: delle suggestioni) politiche. E i dati ottenuti da Facebook permisero a Cambridge Analytica di raggiungere con un messaggio diverso ogni singolo elettore incerto negli Stati chiave, nell’ipotesi che bastasse spostarne alcune decine di migliaia per vincere le elezioni. 

Chiamatela Generazione C

A questo proposito, recentemente Gillian Tett, sul Financial Times, ha scritto un articolo interessante. Secondo lui, per spiegare l’improvvisa instabilità dell’opinione pubblica nel mondo occidentale, bisogna mettere al centro quella che lui definisce Generazione C, dove C sta per Customisation, cioè personalizzazione: la “generazione personalizzata” per adottare una pessima traduzione italiana. 

Tett non fissa i limiti di età di questa generazione (viviamo tutti in un mondo in qualche modo “personalizzato”) ma nota che gli effetti di questo processo sono ovviamente più evidenti tra i più giovani, quelli che più degli altri ascoltano musica personalizzata su Spotify, comprano le merci suggerite da Amazon, leggono le notizie sui rulli di news dei cellulari o di Google News; e che, naturalmente, vivono all’interno di bolle iperpersonalizzate su Facebook, Instagram, Twitter, Youtube… Ognuno di noi, sugli scaffali di questi empori digitali, va in cerca delle news, dei prodotti e delle idee più attraenti. La politica, all’interno di questi mondi virtuali dove ormai si dipana la nostra vita reale, è un oggetto di consumo come gli altri.

Questa svolta, cominciata all’inizio del secolo, si è imposta rapidamente nell’ultimo decennio e ha plasmato la nostra vita in modo così radicale ma allo stesso tempo così impercettibile che spesso la ignoriamo anche se influenza profondamente ogni nostra scelta. Pochi si soffermano a pensare in che modo questi cambiamenti abbiano modificato la percezione del mondo di milioni di cittadini (miliardi, allargando la scena a tutto il mondo). 

Per capire quello che è accaduto vorrei mettere in relazione alcuni dati relativi da un lato al consumo dei media, dall’altro alla capacità di apprendimento degli italiani. Partiamo dai primi. 

Gli italiani descritti da De Mauro

Scorrendo i dati storici, scopriamo che gli italiani che facevano un uso frequente di Internet erano 5 milioni nel 2000, 15 milioni nel 2008 e 43 milioni nel 2018: negli ultimi dieci anni perciò ben 28 milioni di italiani hanno cominciato a fare uso della rete. Siamo ormai quasi alla saturazione del mercato (non a caso Accenture parla di “saturazione digitale della realtà”): all’inizio del 2018 tre italiani su quattro andavano su Internet tutti i giorni per sei ore (quattro sul computer, due sul telefonino), e 34 milioni erano attivi sui social per circa due ore al giorno in media. (Digital in 2018). 

Guardiamo il fenomeno da un altro punto di vista: nel 2008 Tullio De Mauro scriveva che “secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. (E aggiungeva: “Solo lo Stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori”). 

Ragionando a spanne, possiamo immaginare che i 15 milioni di italiani connessi alla rete nel 2008 fossero in larga parte alfabetizzati e in grado di capire testi di media difficoltà. Dopo quella data l’uso di Internet è dilagato (28 milioni in più) e la rete è diventata davvero territorio di tutti, anche dell’80% citato da De Mauro, composto da quelli che non hanno “gli strumenti minimi indispensabili” per capire quello che leggono. 

Nell’ultimo decennio questa enorme massa di persone ha cominciato a trovare su Internet, e in particolare sui social, gli ambienti adatti dove poter non solo leggere cose semplici e comprensibili, ma anche per scambiare idee, addirittura intervenire in prima persona. Tutto ciò presenta, naturalmente, un aspetto largamente positivo: trovando cose “facili da leggere” e avendo la possibilità di esercitarsi nella lettura (e nella scrittura) queste persone possono crescere intellettualmente e culturalmente; per loro la “personalizzazione” ha significato un nuovo modo di partecipare: una nuova vita dove hanno la percezione di contare qualcosa. 

Ma naturalmente esiste il rovescio della medaglia. Azzardo un’ipotesi basata su una considerazione più che banale: queste persone (ripeto: l’80 su cento, quindi la grandissima maggioranza) si trovano più a loro agio con le frasi concrete e meno con i concetti astratti, amano gli esempi e diffidano delle generalizzazioni; cercano di individuare le proposte più favorevoli e le idee più affini alla propria visione del mondo. E siccome non sono addestrate ai ragionamenti complicati e non sono a proprio agio con le complessità della società contemporanea, privilegiano le soluzioni semplici.

“Personalizzazione” significa che su Internet ciascuno sceglie il proprio abito su misura, con il linguaggio giusto e le soluzioni appropriate che per l’80 per cento citato da De Mauro dovranno necessariamente essere semplici, comprensibili, utili alla famiglia. Chi è abituato ad andare al bar sceglierà i siti dove prevale il linguaggio da bar (o da discoteca), scriverà commenti adeguati a quello stile e si fiderà dei politici che usano quel tipo di eloquio. E percepirà le fumoserie della politica tradizionale come uno strumento delle élite per fregare il popolo. 

È forse un macabro scherzo della storia che il 2008 (l’anno in cui si impenna la curva degli accessi a Internet) sia anche l’anno della più grave crisi finanziaria dal 1929. Verrebbe da dire, usando un linguaggio antico, che le masse popolari approdano alla rete proprio nel momento in cui la credibilità del sistema finanziario e del mondo politico subisce gli attacchi più duri. 

Gli “intellettualoni” di Salvini

Quando Salvini attacca “i giornaloni”, i professoroni”, gli “intellettualoni” sa benissimo quello che sta facendo: aizza il sentimento antielitario di milioni di cittadini che su Internet hanno finalmente trovato chi “parla come mangia”, chi manifesta sentimenti “genuini”, chi adotta comportamenti semplici. 

Questo ragionamento può essere declinato con piccole variazioni in molti altri paesi occidentali, perché quasi ovunque (nel mondo avanzato) la straordinaria crescita della rete è avvenuta tra il 2005 e il 2010. E non è un caso che in molti paesi siano emersi leader (Salvini, Trump, Bolsonaro…) che si esibiscono in comportamenti che nel secolo scorso erano proibiti: leader che sparano volgarità, si contraddicono, si lanciano in colpi di teatro. Giuliano Da Empoli (sul suo Gli ingegneri del caos, pubblicato da Marsilio) scrive che non bisogna stupirsi: fa parte del gioco consentito dal nuovo ecosistema digitale. L’obiettivo è saturare la scena mediatica in una spirale che catalizza l’attenzione globale, toglie spazio agli avversari, genera empatia alla base. 

Qui è necessaria una precisazione: non credo affatto che Berlusconi (ieri) o Trump e Salvini (oggi) abbiano indottrinato i loro elettori grazie alla tv e ai social media. 

Non credo affatto che negli anni Novanta Berlusconi abbia creato il suo pubblico attraverso le sue televisioni, né che oggi Trump e Salvini abbiano trasformato la cultura di milioni di persone. Quel pubblico esisteva prima di loro. Berlusconi ieri, e oggi Trump e Salvini, hanno intuito che quel pubblico esisteva e lo hanno fatto emergere (condizionandolo in un processo dialettico) dalle nebbie. Ma penso che lo sbarco in rete del popolo a cui si riferiva De Mauro abbia cambiato lo scenario della politica, perché quella gente, in un momento di crisi economico-finanziaria, di alta disoccupazione, di disagio sociale crescente, di diseguaglianza galoppante, ha sfogato in rete il proprio protagonismo segnalando nei fatti che esisteva lo spazio per imporre una cultura semplificatoria, protestataria, populista. Trump non ha creato il 42-44 per cento degli americani che continua a dargli fiducia secondo i sondaggi, così come Salvini non ha creato il 34-38 per cento degli italiani che lo sostiene. Li hanno intuiti (è questa la forza dei leader populisti) e ora li coltivano in rete usando un linguaggio appropriato, secondo regole di marketing non raffinate come quelle di Cambridge Analytica, ma comunque aggiornate alla personalizzazione consentita da Facebook e da Instagram. 

Quando Salvini lancia il VinciSalvini  promettendo ai vincitori un post con la foto da diffondere ai suoi sei milioni di “amici” su Facebook, da una parte compie un abominio culturale agli occhi di molti (me compreso), ma dall’altra lancia un messaggio che ha una doppia valenza nella sua strategia di personalizzazione: il primo obiettivo è creare empatia con quanti amano il suo linguaggio diretto da discoteca, ma il secondo è raccogliere 47 mila “like” (dato controllato il 27 agosto) che gli permetteranno di chiedere a Facebook di spalmare i suoi post a tutti gli utenti “simili”, che probabilmente sono alcuni milioni. (Simili quanto? vi chiederà Facebook: diversi per il 3%, 5%? Più si sale più aumenta il prezzo). 

Ecco il Nirvana della personalizzazione: ciascuno di noi occupa un posto su un grafo multidimensionale che tiene conto dei nostri rapporti sociali (“social graph” secondo il lessico di Facebook) e viene bersagliato ogni qualvolta un messaggio viene considerato appropriato, e magari può darci una piccola spallata ad acquistare un prodotto o a votare a un partito. 

Pensate a Salvini che sgrana il rosario alla Camera puntando all’elettorato della destra religiosa che non sopporta papa Francesco. Pensate alla Meloni che diffonde un video ammiccando a una scatoletta di tonno da aprire per estrarre il “tonno” Di Maio. Sono tutti messaggi pubblicitari progettati per diventare “memi”, cioè a essere replicati milioni di volte nella grande rete dei social attraverso gli itinerari che sono stati personalizzati per ciascuno di noi e portano a individuare nuovi possibili clienti da corteggiare con cura.  

Non è un caso che Alexandria Ocasio-Cortez sia vista come un fenomeno da studiare tra i progressisti americani: non per le sue idee politiche radicali, che assomigliano a quelle di altri politici, ma per la sua capacità (rara a sinistra) di usare un linguaggio diretto, comprensibile, empatico.   

Buon vecchio Zingaretti

In questo senso la sinistra sembra ferma al secolo scorso. Gli interventi di Zingaretti sono seri e misurati ma anche ingessati, noiosi, poco incisivi e soprattutto poco specifici. Forse vent’anni fa sarebbero stati efficaci, ma oggi raggiungono solo una minoranza colta e quasi sempre anziana. I cinque punti che ha proposto all’inizio della trattativa per il governo con i 5stelle possono anche essere condivisibili ma appaiono del tutto astratti, costruiti su “principi” più che su obiettivi, estranei al linguaggio del mondo digitale. I dieci punti dei Cinque Stelle sono al contrario precisi, puntuali, affilati. Non ne condivido quasi nessuno ma sono semplici, seducenti, facili da capire, adatti a essere compresi da milioni di persone.  

Sembra ormai una banalità dire che in questo mondo nuovo sono cambiati i codici della comunicazione. Ma è una banalità fuorviante perché ormai non si tratta più di un mondo nuovo. Il mondo digitale è nato ormai più di 25 anni fa, ha cominciato a diventare un fatto rilevante vent’anni fa (quando è nata Google) e un fatto di massa dieci anni fa (con i cellulari e i social). A questo punto chi vuole essere protagonista nel mercato della politica non può estraniarsi da questa realtà. 

Le previsioni di Castells

Non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Manuel Castells, forse il sociologo che ha compreso meglio l’impatto sociale dei network digitali, aveva previsto (quasi) tutto già una ventina di anni fa quando individuava due tendenze di fondo: da una parte la crisi di legittimazione della politica (nel 2004 disse che in Italia la politica godeva di minor prestigio della mafia e delle prostitute); dall’altra la personalizzazione di ogni scelta e il declino della partecipazione alla cosa pubblica. Queste due tendenze spingevano Castells a prevedere la crescente avversione verso la globalizzazione, la crisi degli Stati nazione, la richiesta delle autonomie locali come ricetta per riportare il potere vicino alle persone. Tutto questo – diceva – in un contesto in cui i media stavano diventando lo spazio dove la politica si definiva e i cittadini interagivano.

Questo spiega anche perché i partiti tradizionali abbiano imboccato la traiettoria discendente dei giornali generalisti: i cittadini scelgono di volta in volta, sulla base degli slogan più convincenti, dei personaggi più empatici, degli obiettivi che sembrano rappresentare i loro interessi. Ognuno cerca in rete le sue politiche personalizzate così come cerca gli articoli che più lo rappresentano.

La Generazione C premia di volta in volta il brand più fresco e più convincente: che sia Alexandria Ocasio-Cortez con il suo Green New Deal, o la quindicenne Greta con i suoi appelli per salvare il mondo, o il movimento #MeToo che scatena lo sdegno di milioni di donne in tutto il mondo, o magari Nigel Farage, che cattura – senza timore di ricorrere alle menzogne – il risentimento antieuropeo diffuso nelle periferie del Regno Unito. La tecnologia digitale ha distrutto la vecchia idea di politica, che è diventata più fluida ma allo stesso più concreta e diretta. Ogni elettore è un mercato, ed è necessario convincerlo ad acquistare quella merce. 

Che cosa questo possa significare per il futuro della politica e della democrazia è ancora largamente un mistero. Ma ci sono molte idee che stanno emergendo: ci tornerò nelle prossime settimane. 

Aiutaci a dialogare con tutti

Un commento su “È Internet a produrre i Salvini?”

I commenti sono chiusi