Tim Wu: i monopoli digitali e i rischi per la democrazia

Mark Zuckerberg
Mark Zuckerberg

Per capire il senso dell’ultimo libro di Tim Wu (The Curse of Business, la maledizione della grandezza, 2018, Columbia Global Reports, New York, 14,99 dollari), bastano poche frasi dell’introduzione e dell’ultimo capitolo.

Nell’introduzione Wu descrive il nocciolo del problema che intende affrontare: “Le eccessive concentrazioni in economia producono colossali ineguaglianze che alimentano i nazionalisti e gli estremisti. La strada al fascismo e alla dittatura è lastricata degli errori commessi in economia politica nel rispondere ai bisogni dei cittadini”.

Nell’ultimo capitolo fornisce un esempio delle possibili soluzioni: “Il modo più semplice per spezzare il dominio di Facebook è spezzare Facebook”.

Solo due parole sull’autore: Tim Wu è un giurista, insegna alla Columbia University a New York, scrive sul New York Times, è stato consulente del presidente Obama sulle politiche per la competizione, è stato commissario della Federal Trade Commission (FTC), l’ente preposto a vigilare sui monopoli. Inoltre ha scritto due libri fondamentali per capire l’economia digitale: “The Master Switch” (2010) e “The Attention Merchants” (2016).

Nel suo ultimo libro sostiene che quello dei monopoli digitali è un tema da affrontare di petto perché le attuali concentrazioni economico-finanziarie sono una minaccia per la stessa democrazia. E per dare spessore storico alla sua analisi, Wu torna indietro di un secolo, all’epoca in cui negli Stati Uniti furono approvate le leggi antimonopolio che ancora oggi fanno testo nel mondo. Siamo negli anni della Gilded Age (l’età dell’oro) a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando il Trust Movement, il movimento che predica la riorganizzazione della economia sotto l’egida di grandi monopoli, è al suo massimo fulgore. Negli Stati Uniti trionfano, tra gli altri, John Rockefeller e John Pierpont Morgan: il primo, con la Standard Oil, controlla il settore petrolifero mentre il secondo dominava le acciaierie (US Steel), le ferrovie e lo shipping. Allora come oggi i grandi uomini di industria (non solo Rockefeller e Morgan, anche tutti gli altri) assicurano di voler costruire una società migliore, alla guida di un movimento progressistabasato su un’ideologia (allora di gran moda): il darwinismo sociale, basato sulla filosofia di Spencer che prevedeva (per il bene collettivo) che i deboli vengano spazzati via. Tim Wu ci ricorda che John D. Rockefeller finanziò un’iniziativa per sterilizzare 15 milioni di americani poveri. Anche allora la classe media alla crescita dei monopoli corrispondeva l’impoverimento di una parte della popolazione, e anche allora si inneggiava al nazionalismo e molti pensavano che i nemici principali fossero gli immigrati, i prodotti di importazione e le élites.

Nel 1890, come reazione allo strapotere dei monopoli, il Congresso varò lo Sherman Act, in difesa dei piccoli produttori: la legge non entrava nel merito delle soluzioni da adottare, ma fissava alcuni importanti principi e stabiliva che un eccesso di potere nelle mani di pochi avrebbe potuto dare loro “le prerogativa dei re, in contrasto con la nostra forma di governo”.

Il momento chiave della lotta ai monopoli fu il 1912, quando la Standard Oil di John Rockefeller fu spezzata in sette aziende, alcune delle quali sono ancora oggi tra le più potenti al mondo: Mobil, Exxon e Chevron. Questo non impedì a Rockefeller di diventare l’uomo più ricco della storia, con un captale accumulato equivalente a 300-400 miliardi in dollari di oggi. Durante la presidenza di Theodore Roosevelt (repubblicano, 1901-1909) furono varate 45 cause antimonopolio, e 75 in quella di William Howard Taft (anch’egli repubblicano, 1909-1913). L’epoca della lotta ai monopoli durò oltre mezzo secolo e la sua storia coincide con un costante miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno agiate e un continuo allargamento della classe media. Uno dei giuristi chiave di questa battaglia, Louis Brandeis considerava “the curse of bigness” (la frase è sua) una minaccia alla democrazia. E ancora all’inizio degli anni Sessanta Robert Kennedy dichiarava: “Io credo nell’Antitrust quasi come a una religione secolarizzata”. Ultimi fuochi. Qui finisce la rapida rievocazione del passato perché, con gli anni Settanta, tutto cambia e comincia il presente.

Tim Wu dice che stiamo vivendo un esperimento cominciato circa mezzo secolo fa, quando gli Stati Uniti cominciarono ad allentare, fino ad annullare, l’applicazione delle leggi antimonopolio. È stata questa inversione di rotta – secondo lui – a provocare un aumento delle ineguaglianze a livello globale e ad aprire la strada ai populismi che stanno proliferando in giro per il mondo. Wu lo ribadisce con forza: la strada al fascismo è pavimentata dai fallimenti delle politiche economiche dei governi. E oggi, secondo Wu, siamo su quella strada.

Solo per fare un esempio, alla fine degli anni Sessanta l’uno per cento della popolazione Usa possedeva l’8 per cento del reddito nazionale, oggi siamo al 23,8 per cento e al 38,6 per cento della ricchezza. Perché tutto ciò è avvenuto?

Un ruolo fondamentale è stato giocato dalla vittoria delle idee Robert Bork, un giurista (prima docente alla Yale University, poi giudice federale) che sostenne con forza l’idea che l’unico modo per valutare se un’azienda era dannosa alla collettività era la “soddisfazione del consumatore”. In altri termini, se il potere di un’azienda era tale da danneggiare la concorrenza e portare a un aumento dei prezzi, allora si doveva intervenire. Altrimenti, sarebbe stato il mercato a risolvere ogni problema. Secondo lui anche il giudizio storico sulla Standard Oil andava rivisto: a meno di provare che il suo strapotere non avesse provocato un aumento del prezzo del petrolio, cosa evidentemente falsa.

Bork era un fiero rappresentante del neoliberismo della Scuola di Chicago (anche se insegnava a Yale). Con lui la cultura antimonopolio (non solo negli Stati Uniti) subisce una svolta basata sul lassez faire. E da allora i monopoli, da nemici da combattere, diventano amici del popolo. Dagli anni Ottanta – con il beneplacito di presidenti democratici come Bill Clinton – la lotta ai monopoli è stata congelata. Nel 1979 la Corte Suprema Usa eleva il monopolio a buona pratica. E oggi Peter Thiel, potente miliardario della Silicon valley e fondatore di PayPal, sostiene pubblicamente che non solo il monopolio è portatore di progresso, ma che la “competizione è per i perdenti” (Competition is for losers).

Naturalmente Wu sta dall’altro lato della barricata e sostiene che limitare il potere dei giganti è spesso un aiuto alla concorrenza e all’innovazione. Qualche esempio? Quando Ibm dettava legge nel mondo dei computer, la decisione di imporle di installare sui suoi computer software di altre aziende portò alla nascita di Microsoft. E le restrizioni poste a Microsoft sul motore di ricerca consentirono a Google di fiorire.

Ma si tratta di rari esempi. Il processo di concentrazione che si è avviato a partire dai primi anni Ottanta ha riportato l’economia alla situazione di un secolo fa in quasi tutti i settori, dalle telecomunicazioni alla birra.

Nel digitale, questo processo di concentrazione è particolarmente evidente e non solo perché i giganti del settore – Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft – sono tutti tra le prime dieci al mondo per capitalizzazione di mercato, ma soprattutto perché alcune di esse, grazie agli ingenti profitti, agli incredibili investimenti in ricerca e sviluppo e all’acquisizione di enormi giacimenti di dati, stanno dilagando in una molteplicità di settori limitrofi: dall’auto ai supermercati, dalla logistica agli elettrodomestici casalinghi.

Nel suo libro Tim Wu ci ricorda che la Magna Charta, la Costituzione degli Stati Uniti e quelle di tutti gli altri paesi democratici sono state scritte con l’idea che ogni Potere debba essere limitato, distribuito, decentralizzato, sottoposto a controllo, bilanciato da adeguati contropoteri e che nessuna persona e nessuna istituzione possa godere di troppo potere ed esercitare un’influenza eccessiva sulla società. Il potere delle grandi aziende digitali, al contrario, non solo è enorme ma, in un ambiente del tutto privo di regole, continua a crescere a dismisura.

Che fare per invertire la rotta? Wu prova a fornire alcune indicazioni: afferma con forza che avere concesso a Facebook di acquisire Whatsapp e Instagram è stato un grave errore, e sostiene che sarebbe bene bloccare le fusioni tra aziende eccessivamente grandi. Ma la sua è soprattutto un’invocazione: nell’era dei giganti economico-finanziari e delle grandi diseguaglianze sociali sarebbe bene fare marcia indietro e ricreare su nuove basi le Autorità antitrust, adeguandole all’economia del XXI secolo. Ma per fare questo è necessario fare quello che i liberisti alla Robert Bork e Milton Friedman fecero negli anni Ottanta: vincere una battaglia culturale convincendo la politica e l’opinione pubblica della necessità di invertire la rotta. Non sarà facile.

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