Newsletter #4

Approfondimenti

Spezzare Facebook non basta. Lasciamo che i social network parlino tra loro

di Paolo Bottazzini
I social network sono diventati come le reti del telefono, del gas, dell’energia elettrica: un servizio pubblico. Che non può appartenere a una sola azienda. Solo creando uno standard che obblighi le diverse piattaforme a dialogare tra loro si può risolvere il problema. Ecco perché (continua la lettura)

Perché i monopoli digitali vanno spezzati

di Enrico Pedemonte
Elizabeth Warren, candidata democratica alle primarie Usa, dice che bisogna riprendere in mano il bastone dell’Antitrust. Come cent’anni fa, quando la Standard Oil di Rockefeller fu scorporata in 34 pezzi. Allora la lotta ai monopoli consentì di far crescere la classe media e far calare drasticamente  le diseguaglianze. Breve cronaca per spiegare come – accantonata la lotta alle grandi concentrazioni – oggi siamo tornati alla situazione di cent’anni fa. (continua la lettura)


Sorpresa, le nuove élite sono le stesse di ieri

di Paolo Bottazzini
Trump, Farage, Putin, Grillo. Come sempre, i nuovi potenti provengono dalle fila dei miliardari, dalle grandi università, dai servizi segreti, dal dorato mondo dello spettacolo… Ma oggi il nuovo potere è più concentrato e irraggiungibile, perché nell’era della disintermediazione si rivolge direttamente al popolo. Spazzando via i corpi intermedi. (continua la lettura)

Segnalazioni


Morire di cellulare


Guardatelo bene: è un graficoimpressionante. Negli Stati Uniti, tra il 1994 e il 2009, i pedoni morti per incidente stradale calavano ogni anno (-3,2%). Ma dopo il 2009 sono aumentati del 36%. La ragione? L’Economist (a cui si deve il grafico) ipotizza che sia nei cellulari che dieci anni fa hanno cominciato a moltiplicarsi: i pedoni attraversano la strada senza badare troppo al traffico. Muoiono per distrazione: 20 mila morti in più rispetto alle previsioni del 2009. Pare che proibire di scrivere sul telefonino durante la guida abbia fatto calare gli incidenti automobilistici del 4%. Proibire il cellulare ai pedoni? 

San Francisco mette al bando il riconoscimento facciale

San Francisco è la prima città americana a mettere al bando il riconoscimento facciale.Nessuna azienda, pubblica o privata, potrà utilizzare queste tecniche all’interno della città, senza l’autorizzazione degli amministratori cittadini. La decisione è arrivata dopo un lungo dibattito: chi si oppone sostiene che in questo modo si fa un favore ai criminali e si danneggiano le indagini della polizia; i sostenitori della legge dicono che le tecnologie sono ancora poco affidabili, soggette a gravi errori e piene di pregiudizi nei confronti dei neri e delle donne. Nuovi dati sul riconoscimento facciale nella metropolitana di Londra dicono che i falsi positivi, tra il 2016 e il 2016, sono stati il 96% del totale dei riconoscimenti. In passato San Francisco aveva già bandito i “robot fattorini” dai marciapiede (mentre ha lasciato aperta la strada ai test su strada alle auto senza guidatore). Il Senato del Massachusetts sta discutendo una legge per mettere la moratoria sulle tecniche di riconoscimento facciale e altri sistemi di sorveglianza basata sui dati biometrici. Mentre al Congresso è depositato un progetto di legge per bandire l’uso commerciale del riconoscimento facciale e della accolta dei dati biometrici delle persone. 

La California stringe sulla privacy 

La nuova legge sulla privacy, probabilmente la più avanzata al mondo, dovrebbe entrare in vigore in California a partire dal primo gennaio 2020 e potrebbe costituire lo standard di riferimento per tutto il paese. La legge obbliga le aziende a rendere noti i dati personali che vengono raccolti, dà il diritto agli utenti di cancellarli, di proibirne la vendita e di restringere il loro uso per targhetizzare la pubblicità. La legge va ben oltre Il GDPR (General Data Protection Regulation) europeo, che in molti casi è diventato solo un defatigante esercizio per cliccare “accetto” condizioni che nessuno legge. La legge californiana va al sodo del problema: offre agli utenti la possibilità di conoscere le informazioni personali in mano alle aziende, di cancellarli e richiede che sui sito compaia, in modo “chiaro ed evidente” la scritta “non vendere le mie informazioni personali”. Basterà cliccarlo. 

Esiste il diritto al santuario?

Sul New York TimesCharlie Warzel prende in prestito due definizioni di privacy da Maciej Ceglowski. La prima è classica: la privacy dei dati è l’idea di proteggere i materiali sensibili dagli accessi non autorizzati”. La seconda è più complessa: “è l’idea che esista una sfera della vita che non dovrebbe essere che dovrebbe restare al di fuori del pubblico sguardo… Questo include non solo spazi intimi come la casa, ma anche spazi semiprivati dove la gente si riunisce e si impegna di in attività  comuni della vita quotidiana: il lavoro, la chiesa, i club…”. Dovremmo poter schiacciare un bottone e chiamarci fuori, ma è ormai impossibile. E infatti Warzel (e Ceglowski) sono a favore di leggi dure (non solo multe, ma anche condanne penali) per obbligare le piattaforme a rispettare la nostra privacy. 

Le definizioni citate da Warzel ricordano le tesi di Shoshona Zuboff che nel suo recente (e splendido) libro (The Age of Surveillance Capitalism) considera il “diritto al santuario” uno dei più importanti diritti elementari dell’uomo. Ne abbiamo già parlato qui. Nelle prossime settimane pubblicheremo un approfondimento. 

Google e Amazon in rotta di collisione. 

All’inizio erano due imperi non comunicanti: il primo tutto era dedito a business esclusivamente digitali, il secondo si occupava principalmente del mondo reale fatto di prodotti da trasportare nelle case. Poi Amazon ha cominciato a investire nella pubblicità (visto che il 54% di chi fa ricerche su un prodotto lo fa direttamente su Amazon), un business che nel suo bilancio oggi vale 10,8 miliardi di dollari. E pochi giorni fa, nel corso della conferenza degli sviluppatori, Google ha annunciato di voler espandere l’attività di Google Express, il sito di vendite online (per ora attivo solo negli Usa) consentendo agli utenti di comprare direttamente dalla pagina delle ricerche, da YouTube, dalle immagini mostrate o dalle inserzioni pubblicitarie. Google sa molto di noi, e i consigli per gli acquisti cominceranno a comparire sempre più spesso anche su Gmail. 

Bezos ripropone l’Arca di Noè

Jeff Bezos vuole andare sulla Luna: il nove maggio il fondatore di Amazon ha lanciato il progetto “Blue Moon”(a cui dedicherà un miliardo all’anno), che prevede lo sbarco sul nostro satellite, la costruzione di città e il trasferimento di milioni di esseri umani spinti a migrare dalle condizioni ambientali in via di deterioramento sul nostro pianeta. (E dopo la Luna, il sistema solare, ha promesso). Bezos non è l’unico miliardario digitale a progettare sbarchi interplanetari. Elon Musk (fondatore di PayPal) è sulla stessa lunghezza d’onda, anche se il suo obiettivo per garantire la sopravvivenza della specie è Marte. Sogni fantascientifici di miliardari pessimisti e annoiati dalla vita terrestre? Per comprendere meglio la cultura dei tycoon della tecnologia L’Economist suggeriscedi dare un’occhiata ai loro scaffali. Bezos è cresciuto leggendo Isaac Asimov e Robert Heinlein e nutrendosi di Star Trek. Mentre la fantascienze utopistica di Ian Banks, scrittore scozzese, è uno degli scrittori preferiti di Elon Musk (oltreché di Mark Zuckerberg). 

Prove di libertà di parola nell’era digitale

Diciotto paesi (compresa l’Italia) e le cinque più importanti piattaforme digitali hanno firmato il documento (Christchurch Call) lanciato qualche giorno fa dal primo ministro neozelandese Jacinda Ardern dopo l’incontro parigino con Emmanuel Macron e Theresa May. (Il documento è stato redatto dopo la recente strage di Christchurch, in Nuova Zelanda). Amazon, Facebook, Google, Microsoft e Twitter hanno assicurato che lavoreranno insieme per evitare di essere strumenti di attività terroristiche. Gli Stati Uniti, al contrario, non hanno firmato.

Trump si è detto convinto che il documento sia in conflitto con il Primo Emendamento che garantisce la libertà di parola. E poche ore dopo il gran rifiuto, ha lanciato l’ennesimo attacco ai social media accusandoli di avere un pregiudizio contro i conservatori. Pochi giorni prima aveva manifestato la sua contrarietà per la decisione, da parte di Facebook, di chiudere gli account legati a gruppi di “suprematisti bianchi” e di estremisti di destra che diffondevano fake news: “Troppi americani hanno visto i loro account sospesi, bannati o accusati di violazioni non chiare in modo fraudolento”, ha scritto. Trump ha lanciato una campagna invitando i cittadini a segnalare e condividere tutte le storie che loro ritengono censurate da Facebook, YouTube e Twitter. Facebook ha annunciato una nuova stretta proibendo lo streaming agli utenti che condividono materiale considerato terrorista. Ma il dibattito su cosa significhi “libertà di parola” nell’era digitale è appena cominciato.  

I 7 democratici che vogliono spezzare Facebook

Dopo che Chris Hughes, cofondatore di Facebook, ha scritto che la piattaforma va separata da Whatsapp e Instagram, si allunga l’elenco dei candidati democratici orientati a spezzare Facebook. Elizabeth Warren è stata la prima a pronunciarsi. Kamala Harris e Joe Biden hanno detto, entrambi, che il problema va preso molto seriamente. Negli ultimi giorni, con diverse sfumature, anche Bernie Sanders, Makena Kelly, Tulsi Gabbard e Pete Buttigieg si sono uniti al coro di chi vuole un duro intervento nei confronti del social network. Secondo Business Insider Facebook sta assumendo esperti in problemi di Antitrust: chi volesse proporsi, ci sono posizioni aperte sia in Europa sia negli Stati Uniti. 

I lavoratori fantasma dell’intelligenza artificiale

Si chiamano “lavoratori fantasma” perché nessuno da quanti siano né dove lavorino: probabilmente molte decine di migliaia, e forse più, sparsi in tutto il mondo. Sono i lavoratori sottopagati dalle aziende impegnate in progetti di intelligenza artificiale. Che cosa fanno? Scrivono didascalie sotto le immagini, controllano le traduzioni automatiche, correggono gli errori commessi dai software più sofisticati. Sono ovunque: vengono pagati 7-15 dollari all’ora nei paesi avanzati, 2,5 dollari in Malesia. Sono una sottoclasse di lavoratori impegnati a rendere più intelligenti i sistemi di intelligenza artificiale aiutandoli a capire quello che da soli non riescono a capire. Mary Gray and Siddharth Suri (entrambi ricercatori di Microsoft Research) hanno pubblicato un libro inchiesta: “Ghost Work: How to Stop Silicon Valley from Building a New Global Underclass” (Lavoro fantasma: come impedire alla Silicon Valley di creare una nuova sottoclasse).   Si tratta di decine di migliaia di lavoratori invisibili, pagati per inventariare milioni di informazioni che i sistemi di intelligenza artificiale non sarebbero capaci di capire da soli. Hanno una cultura medio alta (altrimenti non sarebbero affidabili) hanno la funzione degli insegnanti di sostegno, ma sono pagati una miseria e hanno un ruolo simile quello degli immigrati nel campi del meridione l’Italia. Le aziende che li sfruttano dicono che  sono a tempo determinato perché “ne avranno bisogno per un tempo limitato”. Ma secondo gli autori non sarà così. Ci sarà bisogno per molto tempo di questo lavoro fantasma per spiegare alle macchine automatiche le sfumature di un mondo che cambia continuamente. Contraddizioni del futuro.

Dati

5 miliardi di cellulari

Google ha rivelato che esistono 2,5 miliardi di cellulari Android attivi nel mondo. Benedict Evans(aggiungendo 900 milioni di iphone e altro) ne ha dedotto che gli smartphone in uso sulla Terra sono quattro miliardi. Più un altro miliardo di telefonini “non smart”.