Perché i monopoli digitali vanno spezzati

Elizabeth Warren, candidata democratica alle primarie Usa, dice che bisogna riprendere in mano il bastone dell’Antitrust. Come cent’anni fa, quando la Standard Oil di Rockefeller fu scorporata in 34 pezzi. Allora la lotta ai monopoli consentì di far crescere la classe media e far calare drasticamente  le diseguaglianze. Breve cronaca per spiegare come – accantonata la lotta alle grandi concentrazioni – oggi siamo tornati alla situazione di cent’anni fa

Da quando Chris Hughes ha chiesto che Facebook, la piattaforma che lui stesso contribuì a fondare, sia fatta a pezzi, il tema è all’ordine del giorno. Sei candidati alle primarie democratiche hanno detto di voler mettere mano, in qualche modo, alle leggi che regolano i monopoli per adeguarle all’economia del XXI secolo, e c’è da aspettarsi che anche gli altri diciassette (sono 23 in tutto, fino a oggi) faranno altrettanto. Paolo Bottazzini, in un altro articolo su Zerozerouno, spiega perché il caso di Facebook si può risolvere solo rendendo i social media “intercomunicabili”, come è accaduto con il telefono cent’anni fa: se è vero che diversi miliardi di abitanti della Terra utilizzano i social network significa che questa modalità di comunicazione è diventata così comune da diventare un’“utility” che non può appartenere a un solo padrone. 

Il problema è sul tappeto da diversi anni ma non riguarda solo Facebook. Già nel novembre 2017 l’Economist, in un’inchiesta di copertina, si chiese se i social network stessero minacciando la democrazia e qualche giorno dopo la commissaria europea Margrethe Vestager rispose che effettivamente i grandi dell’high tech sono una minaccia per il tessuto democratico. Poi il 16 maggio scorso, nel corso di una Conferenza indetta dal Partito Democratico americano, la senatrice Elizabeth Warren (candidata alle primarie) ha affermato che “è tempo di tornare a fare quello che fece Teddy Roosevelt (all’inizio del secolo scorso, ndr): riprendere di nuovo in mano il bastone dell’Antitrust” cogliendo – prima tra i politici – il nocciolo della questione. Perché, se torniamo indietro di un secolo, agli Stati Uniti dei primi del Novecento, troviamo una situazione che assomiglia incredibilmente a quella di oggi: analoga concentrazione di potere, stessa propaganda ideologica da parte dei monopolisti, un’opinione pubblica frastornata esattamente come quella di oggi. 

Su questo io e Paolo Bottazzini stiamo cercando di scrivere un libro (trovate qui le tracce embrionali dei primi capitoli) perché solo ricostruendo il percorso storico che ci ha condotti fin qui ci permette di capire che cosa è accaduto e quali soluzioni è possibile praticare. Davvero, come suggerisce Elizabeth Warren (e molti altri studiosi) ci sono analogie tra la situazione attuale e quella di un secolo fa? 

 I monopoli ai tempi dei Robber Barons

Lo scrittore Matthew Josephson in un libro pubblicato nel 1934 descrive l’America degli anni che seguirono la guerra civile (1865) come un paese caratterizzato da un’“irresistibile deriva verso il monopolio”, dominato da “capitalisti corsari, svincolati da ogni regola e non tassati”, gente che “chiedeva mano libera sul mercato con la promessa che, arricchendo se stessi, avrebbero ricostruito il paese negli interessi dei cittadini”. 

Chi erano i monopolisti di allora, che passarono alla storia come “Robber Barons”, i baroni ladroni? Il primo della lista era John D. Rockefeller che in pochi anni era diventato il padrone dell’industria petrolifera sotto l’egida della Standard Oil. Seguivano Andrew Carnegie e Charles Schwab, che avevano il monopolio dell’industria dell’acciaio, e Cornelius Vanderbilt, soprannominato “il Commodoro” che era il re dei trasporti: aveva costruito la flotta più potente del paese ed era il padrone di gran parte delle strade ferrate per collegare la costa Ovest alle altre regioni degli Stati Uniti. 

Concentriamoci per un attimo su Rockefeller: la sua Standard Oil era un’azienda amata dai cittadini e lodata da gran parte dalla stampa (talvolta prezzolata) per i benefici che aveva portato alla grande maggioranza della popolazione, specie quella meno abbiente. Basti pensare che nel 1863, quando l’azienda fu fondata, per illuminare le case era necessario l’olio di balena, che solo i ricchi potevano permettersi. La Standard Oil mise a punto una tecnica a basso costo per raffinare il cherosene e Rockefeller divenne una leggenda perché – nell’immaginario collettivo – veniva visto come un benefattore dell’umanità per la sua ansia di abbattere i costi dei prodotti messi in vendita e il suo desiderio di allargare il mercato fino ai ceti sociali più bassi. Rockefeller era un grande innovatore, la sua azienda assumeva scienziati eccellenti per mettere a punto nuove tecniche di raffinazione e di trasporto dell’olio combustibile, la sua attività migliorava la vita delle famiglie perché consentiva al combustibile di raggiungere ogni angolo del paese a prezzi accessibili, consentendo a un numero crescente di persone di scaldarsi e di illuminare le proprie case.

Questa incredibile capacità di innovare le tecniche dava alla Standard Oil un enorme vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, e Rockefeller sfruttò questa superiorità utilizzando ogni metodo, anche i più cinici, in un’epoca in cui le regole erano in via di definizione, per mandare sul lastrico le aziende più piccole e poterle comprare a basso prezzo. Nel 1904 la Standard Oil controllava il 91 per cento della raffinazione e l’85% della vendita di prodotti derivati dall’olio combustibile. E siccome la sua produzione superava di gran lunga la capacità di assorbimento del mercato americano, l’azienda creò filiali in Cina e in Medio Oriente, dove vendeva oltre il 40 per cento dei suoi prodotti. 

Il risultato di questo clima imprenditoriale privo di regole (non solo nel settore petrolifero) fu che nel 1900 il 2% degli americani possedeva oltre un terzo della ricchezza del paese, mentre l’uno per cento riceveva un quinto del reddito. (Oggi il top 1% degli americani riceve un quarto del reddito annuo, e controlla il 40% della ricchezza complessiva.)

Il gigante spezzato in 34 parti

Nel 1909 il Dipartimento della Giustizia, sulla base dello Sherman Act (che risaliva al 1890), accusò la Standard Oil di avere usato “metodi scorretti nella competizione”, per esempio “il taglio dei prezzi a livello locale per sopprimere le aziende concorrenti”, “lo spionaggio del business delle altre aziende sul mercato”, “la fondazione di compagnie indipendenti fasulle”. (Attualizzando quel linguaggio, sembra di leggere le accuse che oggi vengono rivolte alle grandi piattaforme digitali.)   

Il 5 maggio 1911 la Corte Suprema dichiarò la Standard Oil “un irragionevole monopolio” e ordinò che fosse spaccata in 34 compagnie indipendenti con differenti board of directors, creando un precedente che fu applicato per decenni. Il principio che ispirò quella decisione era molto semplice: se un’azienda diventa troppo potente e il suo comportamento può essere giudicato anti-competitivo, allora il governo deve intervenire.

Il periodo della lotta ai monopoli durò sessant’anni. In quell’epoca (grazie al presidente Woodrow Wilson) fu creata la Federal Trade Commission per proteggere il libero commercio dalle attività monopolistiche. La cultura del governo ruotava intorno a un’ida chiave: l’Antitrust doveva proteggere non solo i consumatori, ma soprattutto la democrazia dagli eccessi di potere. E nel 1935 (in pieno New Deal, sotto la presidenza Roosevelt) fu approvato il Glass–Steagall Act per separare le banche commerciali dalle banche di investimento impedendo a Wall Street di giocare con la vita dei risparmiatori. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti l’ineguaglianza decresce in modo costante, mentre la classe media si allarga.ancora nel 1968 si riteneva che se un’azienda che controllava oltre il 15% di un mercato voleva incorporare una concorrente con almeno il 3%, questa iniziativa dovesse essere attentamente visionata dal Dipartimento di Giustizia. 

Anni Settanta, il vento cambia

Ma il vento della cultura collettiva si invertì negli anni Settanta, soprattutto grazie un gruppo di economisti (guidati da Milton Friedman e Robert Bork) che si erano insediati alla università di Chicago. Rapidamente crebbe la rivolta contro quello che veniva visto come “il socialismo del new Deal”, a favore delle grandi corporation. Nel 1978 Robert Bork pubblicò “The Antitrust Paradox”, un lunghissimo saggio destinato a diventare la nuova bibbia per le autorità Antitrust, che sosteneva un’idea molto semplice: il compito dell’Antitrust non deve essere la protezione delle piccole aziende da quelle più grandi, bensì la tutela dell’interesse dei consumatori. In altre parole, se un monopolio non produce un aumento dei prezzi, non è necessario intervenire. 

Con la presidenza Reagan, i processi intentati dall’Autorità Antitrust, che nei decenni precedenti erano stati centinaia, diventano rari, fino quasi ad annullarsi nell’era di Bill Clinton. Anche i progressisti, in tutto il mondo, sono soggiogati dalla nuova cultura neoliberista che vede nella lotta ai monopoli un danno all’innovazione e alla crescita dell’economia. L’atto più gravido di conseguenze è forse, da parte del presidente Clinton, l’abolizione del Glass Steagal Act consentendo così la fusione delle grandi banche con le società di investimento. 

Dove nasce la cultura di Internet

È questa la cultura dominante, non solo negli Stati Uniti, quando nasce Internet, all’inizio degli anni Novanta. E possiamo dire con certezza che il web che oggi conosciamo è figlio di quella cultura. L’8 febbraio 1996 Johnny Perry Barlow pubblica la sua “Declaration of Independence of the Cyberspace” che riletta oggi fa quanto meno sorridere: “Governi del Mondo Industriale, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. (…). Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere”. Non è un caso che la Dichiarazione fu lanciata a Davos, il luogo dove ogni anno si riuniscono i potenti del mondo. Ovvio che, in un mondo senza regole, prevalgano i potenti.  

Leggendo le cronache di quegli anni c’è da restare strabiliati. Internet era descritto come il regno della libertà assoluta, dove nessuno ti poteva seguire, le leggi valide nel mondo normale perdevano significato, le tasse alle attività digitali venivano considerate una bestemmia, gli utenti potevano esprimersi senza remore, l’anonimato incoraggiato, i siti che ospitavano i commenti ritenuti non responsabili. “Su Internet nessuno sa che sei un cane”, diceva una vignetta pubblicata dal New Yorker. Il brodo culturale in cui il web si è sviluppato, e che è fiorito nella Silicon Valley, era (ed è ancora oggi) una strana contaminazione tra l’ideologia libertarian dei neoliberisti (che vede lo stato come un nemico) e i valori antiistituzionali dei figli dei fiori.  In questo clima, nel 1994 Jeff Bezos, fonda Amazon;  nel 1998 Sergey Brin e Larry Page danno vita a Google, e nel 2004 Mark Zuckerberg crea Facebook. Per oltre vent’anni queste (e altre) aziende sono cresciute e hanno prosperato in un ambiente privo di regole, esattamente come accadde negli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento. Come allora è cresciuta a dismisura la diseguaglianza, come allora si teme che l’eccesso di potere di queste aziende sia una minaccia alla democrazia, e come allora l’opinione pubblica è attonita, incerta, confusa perché il potere ha un’immensa capacità di seduzione e l’impatto delle nuove tecnologie digitali è capillare, personalizzato, in grado di generare consenso nei cittadini.    

Quando Elizabeth Warren dice che  “è tempo di riprendere in mano il bastone dell’Antitrust” come fece Teddy Roosevelt all’inizio del secolo scorso indica la strada giusta. Come fare per spezzare il potere dei giganti che dominano la nostra vita digitale non è ancora chiaro. Ma chiarissimo è che la lotta ai grandi monopoli, oggi come cent’anni fa, è la strada maestra per combattere le diseguaglianze che stanno logorando il tessuto sociale. 


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