Il divorzio difficile tra i social e il business delle fake news

La reputazione di Facebook scende al 94esimo posto su cento aziende. Ma anche gli altri giganti digitali perdono colpi. E temono duri interventi regolatori. Così cominciano a occuparsi seriamente delle notizie false. Che fino a ieri erano parte importante del loro business 

Il rapporto tra politica e giganti della tecnologia non è mai stato molto lineare. Per anni Facebook, Google, Amazon, Apple, hanno goduto di una sostanziale immunità nei confronti del controllo pubblico: sono uscite intatte da qualunque tentativo di stabilire regolamentazioni antitrust, di imporre una responsabilità editoriale per i contenuti che divulgano o qualche dovere fiscale nei paesi in cui erogano i loro servizi.

Il calo di consensi e la rinascita dell’antitrust

Dallo scoppio dello scandalo di Cambridge Analytica però il consenso dell’opinione pubblica nei confronti dei colossi digitali ha cominciato a ridursi, e anche l’atteggiamento dei politici sembra essere diventato meno accondiscendente nei loro confronti.

Theodore Schleifer su Vox passa in rassegna le voci istituzionali che si sono levate contro gli ex-eroi dell’innovazione tecnologica americana: le contestazioni relative alla libertà di espressione da parte repubblicana, le minacce di smembramento dei grandi gruppi da parte democratica, l’apertura delle procedure di verifica sui metodi di competizione commerciale da parte del Dipartimento di Giustizia e della Federal Trade Commission. Anche Zerozerouno si è occupato dell’opportunità di impedire la formazione dei grandi conglomerati digitali. 

Su Vox, Schleifer suggerisce una relazione molto stretta tra le nuove iniziative dell’antitrust, e il crollo nella popolarità delle imprese della Silicon Valley. Un sondaggio condotto da SurveyMonkey per Axios registra un tracollo di fiducia da parte del pubblico per Facebook, Amazon, Google, Apple, Twitter e Microsoft. (Va detto però che, dopo aver pronunciato una condanna così dura sui brand ormai «storici» della Rete, gli interpellati da SurveyMonkey si prodigano in elogi per i nuovi attori del mercato digitale: Uber, Lyft, Tesla. Non si impara nulla dalla storia).

Un sondaggio più recente, sempre realizzato da Axios, mostra che Facebook ha perso 43 posizioni nella lista delle cento imprese con la reputazione più elevata negli Stati Uniti, scivolando dal 51° al 94° posto. Google ne ha perse 13, cadendo al 41° posto. Apple è riuscita a frenare il precipizio fermandosi in 32° posizione. Amazon invece sembra godere di una fiducia inattaccabile, cedendo solo una posizione negli ultimi dodici mesi, e restando ancorata al secondo posto della classifica generale. Il panel del sondaggio sembra poco sensibile alle questioni di antitrust che coinvolgono l’impero dell’ecommerce di Jeff Bezos: l’ansia di tutti ora si focalizza sulla privacy e sulle fake news.

Il crollo della reputazione di Facebook. Fonte: Axios Harris Poll

Se la ricognizione del Pew Research è corretta, alle convinzioni negative sui social media gli utenti non fanno seguire comportamenti coerenti. Al contrario, quai il 70% degli americani adulti continua a frequentare Facebook (tre quarti di loro controlla la bacheca almeno una volta al giorno) e addirittura il 73% YouTube.

A quanto pare, il bisogno di socializzare online non ha subito flessioni rispetto all’anno scorso; anzi, questa brama di amicizia deve essere persino cresciuta per tutte le fasce di età sopra la fase liceale, perché l’unica classe di utenti che manifesta l’intenzione di disertare la piattaforma di Zuckerberg è proprio quella dei più giovani. La penetrazione di Facebook tra gli adolescenti è crollata dal 71% al 51% (in favore di YouTube, che è salito fino all’85%, di Instagram al 72%, e di Snapchat al 69%).

Il 43% degli adulti trova Facebook la sua principale fonte di notizie: questo è vero più per le donne (61%) che per gli uomini (39%). Seguono YouTube con il 21%, Twitter (12%), Instagram (8%) e LinkedIn (6%).

Popolarità dei social media presso il pubblico USA. Fonte: Pew Research

L’amore dei social media per le fake news

Visto lo scarso senso per la coerenza manifestato dall’opinione pubblica, e l’inefficienza delle istituzioni nell’imporre regole adeguate, la responsabilità che i social media decidono di assumersi nel controllo delle fake news rappresenta al presente (e, presumibilmente, ancora per molto tempo in futuro) la garanzia principale contro il deterioramento dell’opinione pubblica e della sua dieta informativa.

L’indagine pubblicata il 20 ottobre 2016 su BuzzFeed mostrava che sui social media le testate che diffondono notizie faziose hanno un numero di fan molto superiore delle testate che divulgano notizie con una taglio neutrale; non solo: le notizie faziose esercitano molto più fascino delle notizie prive di faziosità. Nessun giornale di levatura nazionale tra Politico, CNN, ABC News riesce a raggiungere la quota dei due milioni di fan, mentre la pagina progressista di Occupy Democrats ne ha attratti più di quattro milioni, mentre The Other 98% ha valicato la soglia dei tre; dalla parte Repubblicana, Right Wing News si avvicina ai 3,5 milioni di fan.

Il dato più allarmante riguarda le modalità di condivisione da parte del pubblico, più disponibile a interagire con informazioni false, polemiche, inclini alla denuncia degli avversari, rispetto alle notizie suffragate dai fatti. Un post che contiene distorsioni della realtà, o una miscela di invenzioni e di verità, su The Other 98% incontra una probabilità di essere condiviso cinque volte maggiore rispetto ad un report fedele agli eventi. Su Occupy Democrats il rapporto «si limita» ad essere il doppio, come su Freedom Daily, mentre su Right Wings News diventa oltre dieci volte superiore.

La guerra dei social media contro le fake news

Dal punto di vista dei social media quindi le fake news rappresentano una grande opportunità di business, dal momento che intensificano le interazioni e aumentano la permanenza degli utenti sulla piattaforma.

Lo studio del National Bureau of Economic Research, organizzato con ricercatori della New York University e dell’Università di Stanford, conferma che fino alla fine del 2016 Facebook e Twitter non sono intervenuti per tenere sotto controllo la diffusione di informazioni faziose, beneficiando così di volumi in crescita per i dati di utilizzo dei loro servizi da parte del pubblico.

A partire dal 2017 (conclusa la campagna elettorale) i destini dei due social network cominciano a divergere per effetto delle iniziative assunte da Facebook per il monitoraggio dei contenuti distribuiti sulla sua piattaforma. Non è stato possibile comprendere quale degli strumenti adottati sia stato efficace:

-il dispositivo per attivare un crowdsourcing di segnalazioni delle notizie false non ha intercettato nemmeno tutti i contenuti già identificati dalle agenzie di fact checking che hanno collaborato con Facebook;

-lo scrutinio del fact checking, nel suo complesso, non sembra in grado di modificare l’opinione dei lettori sul merito dei contenuti cui sono esposti;

-le restrizioni, imposte dall’algoritmo del news feed sulla bacheca degli utenti, non sono riuscite a limitare le interazioni con i post delle pagine dei siti di fake news, o a ridurre il loro seguito di fan.

Forse però queste iniziative, prese nella loro totalità, sono riuscite in qualche modo a contenere l’impatto delle notizie false: secondo i dati analizzati dagli studiosi dell’NBER, le interazioni con contenuti classificabili come fake news hanno raggiunto su Facebook un massimo di 200 milioni al mese alla fine del 2016, per contrarsi fino ad un volume di 70 milioni al mese nella seconda metà del 2018; l’attività degli utenti con i post delle testate «istituzionali» di informazione è rimasta costante, tra i 200 e i 250 milioni di interazioni al mese.

Il confronto con Twitter offre una misura del successo raggiunto da Facebook. Infatti, il social network dei cinguettii contava alla fine del 2016 circa due milioni e mezzo di condivisioni al mese per le fake news, contro un volume di circa 16 milioni di share per i post dei giornali istituzionali. Nella seconda metà del 2018 le interazioni con le notizie distorte erano salite a 6 milioni, contro i 25 milioni dei contenuti provenienti dalle testate considerate neutrali. Il rapporto tra il numero di azioni compiute sulle fake news tra Facebook e Twitter si è quindi ridotto da un distacco 45:1 ad un più modesto 15:1 in meno di due anni.

Il ruolo di Facebook nella circolazione di notizie manipolate resta comunque tuttora un’evidenza al di sopra di ogni ragionevole dubbio.

Ma le polemiche degli ultimi mesi hanno convinto anche Twitter a farsi carico di un intervento di controllo che finora era stato rimandato. Lunedì 3 giugno ha annunciato l’acquisizione di una società londinese, Fabula AI, che dovrebbe contribuire a monitorare la diffusione delle bufale: da un lato esaminando il contenuto dei post da un punto di vista semantico; dall’altro lato scansionando il grafo sociale dei profili che condividono i post, cercando di comprendere chi sono i creatori e i diffusori delle fake news. Al momento non si sa molto di più, ma è almeno la dichiarazione di un’intenzione – seguita da un investimento economico consistente.

Mentre nella politica si discute, sono ancora le piattaforme tecnologiche a decidere cosa debba essere la verità.

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