Sorpresa, le nuove élites sono le stesse di ieri

Trump sul New York Times
Trump sul New York Times

Trump, Farage, Putin, Grillo. Come sempre, i nuovi potenti provengono dalle fila dei miliardari, dalle grandi università, dai servizi segreti, dal dorato mondo dello spettacolo… Ma oggi il nuovo potere è più concentrato e irraggiungibile, perché nell’era della disintermediazione si rivolge direttamente al popolo. Spazzando via i corpi intermedi.

«Il fact checking non può fare granché quando i fatti controversi sono decisi dai valori e non dalla conoscenza» lamenta un recente articolo del Nieman Lab. Rincara Anna Merlan sul Guardian: «Gli Stati Uniti hanno eletto presidente un entusiasta delle teorie cospirazioniste, un uomo che crede erroneamente che i vaccini causino l’autismo, che il riscaldamento globale sia una beffa perpetuata dai cinesi per rendere l’industria manifatturiera Usa non competitiva, come ha twittato nel 2012, e chi ha sostenuto (…) che Barack Obama è nato in Kenya». Conclude Nicco Mele intervistato dal Wall Street Journal: «È difficile vedere un futuro in cui i giornali sopravvivano. Metà delle testate attuali sarà estinta entro il 2021».

Queste tre denunce inquadrano un fenomeno complesso, di cui la progressiva estinzione dei giornali è solo uno degli aspetti più appariscenti. William Davies, professore di sociologia ed economia politica alla Goldsmiths University di Londra, alla fine di novembre sintetizzava la questione nella domanda: perché abbiamo smesso di fidarci delle élite? 

Il focus di Davies è centrato sul Regno Unito, ma i sintomi elencati sembrano validi per l’intero mondo occidentale. La stessa classe sociale alimenta le fila dei politici, dei giornalisti, degli accademici, degli esperti che svolgono le professioni intellettuali. Le stesse persone, nel corso della vita, possono ricoprire incarichi di governo e ruoli chiave nell’amministrazione pubblica; possono diventare ricercatori e poi divulgare le scoperte per il pubblico di massa. In questa girandola di ruoli, gli interessi di chi svolge funzioni operative e di chi dovrebbe esercitare un controllo si confondono. Il potere delle élite travolge i limiti che qualunque divisione dei poteri e qualunque meccanismo di controllo sono in grado di tutelare.

Dove nasce la sfiducia nelle vecchie élites

Le difficoltà nascono quando gli esponenti di questa classe perdono il senso della misura e non riescono a nasconderlo all’opinione pubblica. Davies cita una serie di scandali che hanno corroso la fiducia nelle élites. Si parte con la negazione da parte di Clinton della relazione con la stagista Monica Lewinski; si passa alle menzogne raccontate dalle amministrazioni di Bush e di Blair sulle armi chimiche di Saddam e in generale sugli abusi durante la seconda guerra del Golfo; segue lo scandalo dei rimborsi spese dei deputati britannici del 2009, quello delle intercettazioni telefoniche da parte di News of the World (testata appartenente all’impero mediatico di Murdoch) nel 2011, quello sull’alterazione del sistema interbancario (Libor) sui mutui e prestiti di Londra del 2012, quello sullo spionaggio di massa da parte dell’NSA nel 2013. Ma questa è solo un’antologia parziale, cui si dovrebbero aggiungere lo scandalo Enron e il disastro della finanza internazionale (sostenuta dalle agenzie di rating) in occasione della crisi dei subprime.

In cambio di questa corruzione che dilaga, e che provoca conseguenze sempre più gravi per tutti, le masse sperimentano una situazione di immobilità sociale, di riduzione del welfare, di scarsa qualità o di inaccessibilità ai servizi primari. Secondo Anna Merlan sono queste le ragioni che, negli Stati Uniti, spiegano l’aumento del numero di persone che credono alle tesi dei cospirazionisti, dalle posizioni no-vax fino alle follie sui Rettiliani. Ma se diamo credito all’indagine del Sole24Ore sul fatto che a Firenze la ricchezza è rimasta appannaggio delle stesse famiglie negli ultimi seicento anni , il problema dell’immobilità sociale e dell’inaccessibilità alle risorse che contano, non deve essere da meno anche dalle nostre parti. Se il granduca ora si fa chiamare presidente o CEO, e la corte si autodefinisce consiglio di amministrazione, non si può leggere in questo cambiamento il sintomo di una trasformazione politica radicale – al massimo una generosa concessione di Sua Signoria al marketing dei tempi moderni.

Vale la pena però di approfondire alcune note che Davies tratta con una certà rapidità. Wikileaks ha svolto una parte di primo piano nella scoperta degli scandali elencati in precedenza; più in generale, le denunce sono avvenute presentando i fatti al pubblico direttamente come archivi di dati – trafugati in modi più o meno avventurosi dai server in cui erano custoditi. I lettori sono stati messi in contatto diretto con le impronte lasciate dai colpevoli. In un certo senso, i giornalisti si sono limitati ad accompagnare, non a mediare, l’incontro con la realtà. Secondo Davies, che segue su questo punto le valutazioni del filosofo Slavoj Žižek, questo contatto «nudo e crudo» ha accresciuto l’effetto di choc è stato un moltiplicatore della sfiducia nei confronti dell’élite. Ma al di là della accresciuta diffidenza nei riguardi dell’élite, ci sono due questioni che mi paiono sottovalutate: da una parte la trasformazione del potere dei politici, dall’altra la contrazione di quello dei giornalisti. 

I granduchi ai tempi del web

Partiamo dalla prima. Farage, Trump, Putin, o (a casa nostra) Grillo – i leader che le masse acclamano come protettori dei loro interessi contro le élite – non sono nomi di Masaniello popolari: emergono dalla stessa élite dei loro predecessori, quella degli avvocati laureati dalle università più prestigiose, quella dei miliardari, quella dei dirigenti degli apparati statali e dei servizi segreti, quella delle star rese ricche e famose dai mass media.

L’élite non sembra granché minacciata dallo scetticismo popolare, né lo è la sua capacità di dominare la massa. Certo sono cambiati i dispositivi di potere cui ricorre, che sono ancora più forti rispetto al passato – costruiti sui grandi monopoli della knowledge economy, e sulla capacità delle tecnologie digitali di erogare welfare di ultima generazione (dall’intrattenimento gratuito o a bassissimo prezzo, fatto di serie TV e di musica, alla gratificazione delle relazioni sociali, alla risposta qui e subito a qualunque domanda) in cambio di una minuziosa misurazione dei comportamenti, delle ossessioni, dei rapporti, e persino delle caratteristiche fisiche personali, di ciascun cittadino. 

Nemmeno il granduca vantava un arsenale così vario e preciso di leve e di punti di pressione per intervenire sui suoi sudditi – e soprattutto, per sbarazzarsi della sua corte, che è sempre stata terreno di coltura per la proliferazione di traditori e congiurati. Il granduca moderno, che diventa tale per la sua abilità nel manovrare le risorse tecnologiche di Internet, può afferrare il tipo di potere che sorge spontaneamente dalla rete riducendo, fino alla sparizione, i corpi intermedi. Nel linguaggio del marketing digitale, il granduca disintermedia – con la conseguenza che l’élite in grado di sopravvivere a questa ondata selettiva è ancora più ristretta di quella precedente, e ancora più irraggiungibile per la popolazione che è chiamata a guidare.

Sopravvivono i giornali che parlano ai decisori

Il destino dei giornali |lo abbiamo già descritto in un precedente approfondimento: fino a pochi anni fa il mercato degli investimenti pubblicitari era suddiviso tra migliaia di testate in formato cartaceo e televisivo, ora Facebook e Google si assicurano da soli una quota stimata tra il 60 e l’80% dei finanziamenti per l’advertising digitale. Con la sparizione delle risorse provenienti dalle inserzioni, le redazioni devono tornare ad affidarsi ai lettori; ma in questa operazione di selezione naturale, i soli nomi che sembrano destinati a resistere sono pochissimi. Facebook e Google disintermediano, come il granduca, e lasciano gran parte del mondo occidentale senza più l’ombra di un giornale locale. 

Ma non basta falciare la piccola nobiltà di campagna; bisogna fare pulizia anche nei palazzi di città. Wall Street Journal, Financial Times, The Economist, hanno visto crescere negli ultimi anni il loro fatturato derivante dalle copie vendute e dagli abbonamenti; Il New York Times ha seguito lo stesso percorso, con una crescita del 28% degli abbonamenti solo nel 2018. Il Washington Post rimane in scia. Gli altri? In una prospettiva di pochi anni, saranno tutti morti, o quasi.

Credo che la nozione di potere possa aiutarci a comprendere perché i lettori siano disposti a pagare le cinque testate che sopravvivono alla selezione naturale e lasciano gli altri al loro destino di estinzione. Se si considerano gli esempi delle prime tre testate, tutte di ambito economico, la questione dovrebbe mostrarsi in tutta la sua chiarezza. I caratteri del giornale che non solo sopravvive, ma che prospera, sono quelli dell’autorevolezza: le colonne del WSJ, del FT e dell’Economist, non descrivono i fatti, ma prescrivono decisioni. Chi li acquista non si attende solo di leggere delle buone analisi finanziarie – ma è avvolto dalla consapevolezza che gli stessi contenuti saranno compulsati da tutti i grandi decisori finanziari ed economici del pianeta, siano essi politici o membri dei consigli di amministrazione delle multinazionali. Ed è convinto che, finita la lettura, i grandi decisori si accingeranno a deliberare le loro risoluzioni sulla base dalle informazioni che hanno appreso da queste testate, a loro volta sollecitati dalla certezza che i loro pari faranno lo stesso. Il potere è ricorsivo. E il potere delle testate che sopravvivono risiede nella convinzione che il loro acquisto sia indispensabile per sapere quali decisioni prendere, non per essere informati su cosa è successo nel passato prossimo. (Il modo verbale del granduca è l’imperativo: quando è in vena di cortesia, il congiuntivo ottativo). 

Il caso del NYT e del WP è più sfumato, ma della stessa natura. I loro lettori sanno di appartenere alla stessa élite che acquista le altre tre testate economiche: quindi sono consapevoli di consultare le fonti che prescrivono le decisioni di ordine sociale, politico, culturale. Persino il granduca – Trump, e sicuramente anche i Farage, i Putin e i Grillo attuali e futuri – pur essendo l’oggetto della loro aperta opposizione, devono leggerli e citarli, sollevando l’unica eccezione all’autoreferenzialità della loro comunicazione: la parte più resistente della corte, l’élite che sopravvive, che è pronta a sostituirli (e che prima o poi lo farà), organizza il proprio apparato di assalto sulle loro colonne. In altre parole, il NYT e il WP continuano oggi ad eseguire il compito di prescrizione politica che fino a qualche anno fa era appannaggio di tutti i grandi quotidiani. Il Corriere ha indicato per anni la parte politica da sostenere a ogni tornata elettorale – e il suo declino è cominciato quando non è più stato in grado di farlo.

Le testate che non detengono più il potere di prescrivere le scelte dei loro lettori non sono più in grado di giustificare la scelta del pubblico di acquistare le loro copie in edicola o in abbonamento. Il Rinascimento delle corti grandi e sosfisticate è terminato; è cominciata la modernità dei monopoli di Google e di Facebook – e di coloro che sanno trasformare queste piattaforme in un servizio per i propri fini.

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