Spezzare Facebook non basta. Lasciamo che i social network parlino tra loro

Zuckerberg e Hughes
Ritratto dei fondatori di Facebook da giovani: Mark Zuckerberg e Chris Hughes

I social network sono diventati come le reti del telefono, del gas, dell’energia elettrica: un servizio pubblico. Che non può appartenere a una sola azienda. Solo creando uno standard che obblighi le diverse piattaforme a dialogare tra loro si può risolvere il problema. Ecco perché

A volte ritornano. E quando succede, come avverte Stephen King, l’effetto non è mai piacevole. Lo scorso 9 maggio Chris Hughes, co-fondatore di Facebook, ha ripreso la parola sull’impresa che ha contribuito a costruire – ma soprattutto sull’ex socio Mark Zuckerberg. I giornali e i politici non sono mai stati avari di critiche nei confronti del social network e del suo azionista di maggioranza, e la furia è aumentata dopo lo scandalo di Cambridge Analytica; ma di sicuro l’intervento di Hughes sul New York Times si può annoverare tra i più severi. L’ex startupper accusa senza giri di parole Zuckerberg di aver accentrato su di sé un eccesso di potere sugli individui, sulla società, sulla politica delle nazioni occidentali – e soprattutto, sottolinea che questo risultato non è un fatto accidentale della storia, ma è stato perseguito con intenzione. 

Mark (sempre apostrofato con il nome di battesimo) sarà anche stato un bravo ragazzo, ma fin dal giorno in cui Facebook ha cominciato a ricevere finanziamenti importanti, e la società si è trasferita in Silicon Valley, ha espresso con chiarezza le sue intenzioni: dominare il mondo dei social network (e forse, in modo solo un po’ più implicito, dominare il mondo tout court). Non gli è mai bastato realizzare un ottimo affare, e per questa ragione ha rifiutato l’offerta di acquisto avanzata da Yahoo! nell’estate del 2006, al prezzo di un miliardo di dollari: all’età di 22 anni si sarebbe assicurato un guadagno da molte decine di milioni di dollari, una cifra quasi insensata per un ragazzo non ancora laureato – ma il suo progetto era ben più ambizioso. Il problema attorno al quale ruota il J’accuse di Hughes è che Zuckerberg ha realizzato il suo piano, e nessuno lo ha fermato in tempo – nemmeno lui che lo conosceva bene. Adesso è necessario porre rimedio a questa distrazione, e intervenire con urgenza per invertire il corso del tempo e ruotare a ritroso le lancette della storia all’8 aprile 2012: bisogna disaggregare il Gruppo di Menlo Park, riportando Facebook, Instagram e Whatsapp alla loro autonomia di partenza, obbligandole a procedere ciascuna per conto proprio.

Secondo Ezra Kline l’ossessione per il potere conquistato dall’ex socio ha finito per sfuocare la mira sul problema di Facebook e condurre l’argomento verso una contraddizione. Le minacce che Hughes rinviene nella costruzione dell’impero di Zuckerberg sono in realtà di due tipi. Il primo è la trasformazione di Facebook e delle sue proprietà in un monopolio che impedirebbe la crescita di concorrenti in grado di progettare servizi nuovi, di catturare l’attenzione degli utenti, e di limitare la capacità di attrazione del social network di Menlo Park o addirittura di superarla. Il secondo invece è la degenerazione morale cui si sono abbandonati tutti gli attori del mercato dei social media, sotto la pressione della concorrenza reciproca, per riuscire a conquistare una posizione di primato, e non rischiare di perderla. A questo scopo si è innescata la rincorsa alla razzia dei dati personali degli utenti, alla profilazione senza pietà degli individui e dei gruppi, alla costruzione di algoritmi che favoriscano la dipendenza dalla piattaforma, che incentivino la permanenza sulle bacheche e le interazioni, ricorrendo ad ogni mezzo, inclusa l’ospitalità per i contenuti che suscitano le sensazioni e le reazioni più violente.

Kline ha ragione a rilevare l’incongruenza che affligge la riflessione di Hughes; ma la sua conclusione è meno convincente. Per il primo problema ritiene che la proposta di frammentare le diverse proprietà della società di Zuckerberg sia la soluzione corretta; per il secondo problema invece occorre intervenire non con un provvedimento di antitrust – ma anzi, con misure che siano in grado di porre sotto controllo i metodi della concorrenza, imponendo per esempio agli attori del mercato di farsi carico della responsabilità civile e penale di quello che viene pubblicato sulle loro bacheche (come accade agli editori tradizionali).

Vorrei soffermarmi soprattutto sul primo genere di problema; credo si possa mostrare che anche i provvedimenti relativi al secondo, almeno in parte, siano derivabili dal primo. Kline liquida il problema del monopolio in meno di una riga: se le dimensioni di Facebook impediscono la formazione di imprese concorrenti, allora basterà imporre la frammentazione del Gruppo nelle tre parti originarie. E’ chiaro però che questa è solo una soluzione apparente, e i dati citati da Hughes illustrano le ragioni dello scetticismo.

Facebook da solo conta 2,5 miliardi di utenti; quelli attivi spendono un’ora al giorno del loro tempo sulla piattaforma per consultare i post degli amici e quelli delle pagine cui si sono abbonati, scorrendo le immagini, dando un’occhiata ai video, mettendo like e conversando. Whatsapp ha reclutato 1,6 miliardi di iscritti, e in Europa si è di fatto aggiudicata il monopolio dei servizi di messaggistica. Instagram raccoglie un miliardo di utenti registrati, che trascorrono 53 minuti al giorno a sfogliare le foto e i contenuti audiovisivi dei profili di cui hanno sottoscritto il feed. 

Effetto San Matteo

Questi numeri spiegano perché dal 2011 nessuno è più riuscito a fondare un social network di dimensioni apprezzabili, nonostante la crescita di interesse per le startup tecnologiche, l’aumento del numero di venture capital pronte a finanziarle – e persino nonostante la crisi di consenso di Facebook nell’opinione pubblica. Le persone frequentano i luoghi che hanno già attratto altra gente: è una delle manifestazioni del fenomeno che il sociologo Robert Merton ha battezzato «effetto San Matteo», riferendosi ad un versetto del Vangelo che potremmo parafrasare con il motto «chi vince piglia tutto». È una forza di attrazione che sperimentiamo ogni giorno, per esempio quando scegliamo di entrare nel ristorante davanti al quale si sono già fermate altre macchine, preferendolo a quello accanto con il parcheggio ancora deserto. 

La principale difficoltà con cui si scontra chiunque intenda formare una nuova comunità online non risiede (solo) nell’investimento tecnologico, ma nel fatto che la gente è già tutta da un’altra parte. Anche separando Whatsapp da Facebook, le dimensioni della piattaforma di messaggistica acquistata da Zuckerberg resterebbero tali da sfavorire la nascita e lo sviluppo di qualunque impresa paragonabile, sia pure con proposte di servizio migliore – a meno di non riuscire a materializzare dal nulla un miliardo di nuovi utenti pronti a utilizzarla. Un discorso analogo può essere svolto per ciascuna delle altre unità del Gruppo. La questione che Kline ritiene marginale, e che Hughes stima centrale, è davvero il problema principale per l’antitrust – ma non lo si può dirimere con la sola operazione di frantumazione del Gruppo.

Eppure l’esperienza che ciascuno di noi compie quotidianamente con il servizio di mail, mostra che questo problema non è inaggirabile. Gli utenti di Gmail infatti non sono costretti a scrivere solo agli altri clienti della piattaforma di Google; né quelli di Yahoo! sono ingabbiati nella relazione con i loro pari, né accade che le mail della posta aziendale possano essere scambiate solo con i colleghi, senza poter raggiungere anche clienti, fornitori, amici del calcetto, e ristoratori per la prenotazione della cena di stasera. La procedura tecnica che permette a un messaggio di passare senza difficoltà tra le piattaforme di gestori diversi si chiama «interoperabilità», e consente a tutti noi di doverci preoccupare solo della conoscenza dell’indirizzo email del destinatario, quando vogliamo scrivergli qualcosa. Peraltro non si tratta di un miracolo del mondo tecnologico, perché la separazione tra piattaforma e servizio è il principio di antitrust che regola le reti su cui si fonda la nostra vita quotidiana. La distinzione tra produzione, distribuzione e commercializzazione della corrente elettrica, del gas, del metano, dell’acqua, si articola sempre sul principio che l’erogazione del servizio viene assicurata dall’interoperabilità delle piattaforme che presiedono la generazione, la mobilitazione e la consegna delle risorse energetiche. Nessuna sorpresa quindi che la rete della posta elettronica funzioni obbedendo alla stessa logica di standardizzazione che governa i protocolli e le interfacce tra le piattaforme, e che permette l’interoperabilità su cui fluisce il servizio.

Il maggiore ostacolo? L’incompetenza dei politici

Cosa impedisce quindi di applicare lo stesso schema alla Rete nel suo insieme, aprendo Whatsapp all’interoperabilità con altre piattaforme? Nulla, se non il fatto che finora i politici incaricati di esaminare il caso, e di proporre qualche soluzione, hanno mostrato un’incompetenza quasi completa sul tema – a partire dalle audizioni di Zuckerberg davanti alle camere parlamentari di USA ed EU, quando le domande di deputati e senatori hanno rassicurato Mark sulla convinzione di poter correre su praterie di ignoranza per raggiungere il suo obiettivo di dominio.

Possiamo viaggiare con l’automobile passando su autostrade di gestori differenti, o con treni di proprietari diversi sulla rete ferroviaria; ma non si è nemmeno riusciti a imporre uno standard di API (Application Programming Interface) per rendere possibile la conversazione tra nuove piattaforme di messaggistica con gli utenti di Whatsapp e di Facebook, o l’apparizione di inserzioni gestite da concessionarie terze sulle pagine di Google, di Amazon o di Facebook. Solo in questo modo l’esistenza di grandi piattaforme viene liberata dal modello dei walled garden («giardino recintato», la metafora con cui si designano i servizi e i dati generati, inaccessibili a chiunque non sia il proprietario della piattaforma) e si trasforma in una potenziale risorsa per le startup, che vi possono rintracciare milioni di utenti già attivi e attenti, proponendo prodotti, metodi di interazione, esperienze di socialità, di apprendimento, di divertimento, con cui generare nuova ricchezza e nuove modalità di concorrenza.

Anche la manovra di Margarethe Vestager, la Commissaria Europea che ha inflitto una multa miliardaria a Google per l’abuso della posizione dominante nel servizio pubblicitario Shopping, si è fermata drammaticamente a metà percorso – peraltro quella più incomprensibile per il pubblico, e quella che non risolve le difficoltà di creare nuove imprese in Europa e nel mondo, a fronte dei colossi della Silicon Valley. Tutte le interazioni tra il mondo della politica e gli interlocutori tecnologici – anche quando assumono il formato autoritario della procedura giudiziaria – si fermano alla richiesta che gli attori del mercato provvedano da soli a identificare il problema e a risolverlo. Il mantra di Zuckerberg davanti al popolo eletto americano ed europeo, in fondo, è sempre stato in accordo con questo metodo: 

  • parte prima: scusate, abbiamo sbagliato; 
  • parte seconda: fidatevi comunque di noi, perché non sapete fare di meglio; 
  • parte terza: non immischiatevi nei nostri affari, ci pensiamo noi a risolvere tutto. 

Una procedura perfetta per non occuparsi di nulla di essenziale, e soprattutto per non offrire alcuno strumento ai controllori pubblici di verificare se (e come) le richeste siano state prese in carico e portate a termine.

I trucchi di Zuckerberg

Quando l’interlocutore ha assunto le dimensioni di un monopolista, e ha mostrato di essere in grado con la propria piattaforma di influenzare  (o in qualche misura distorcere) persino i risultati delle elezioni politiche dei principali paesi occidentali – gli standard e le procedure devono essere imposti: non ci si può fermare a richieste generiche, affidando la soluzione concreta alla creatività dell’impresa imputata. Quello che accade in caso contrario è sotto gli occhi di tutti. La soluzione di Zuckerberg allo scandalo Cambridge Analytica è stata (incredibilmente) quella di aprire l’interoperabilità tra le sue piattaforme, in modo da permettere il flusso dei dati tra le diverse proprietà di Facebook, al di là di quanto effettivamente accettato dagli utenti al momento della sottoscrizione del servizio – chiudendo però l’accesso ad attori terzi, Stato incluso.

L’operazione che è stata venduta all’opinione pubblica come una stretta per la difesa della privacy, e che trasforma il social network «dalla piazza della città al salotto di casa», prevede che i dati non siano più visibili per nessuno, e siano rintracciabili persino sulle bacheche e sul motore di ricerca per un periodo di tempo più breve rispetto ad ora – tranne che per Zuckerberg. Solo a lui sarà permesso di essere presente in tutte le stanze, camere da letto incluse, e di possedere la chiave delle porte che si aprono sul passaggio segreto che mette in connessione tutti i salotti: solo Mark potrà verificare chi ciascuno di noi frequenta, e conoscere nel dettaglio cosa diciamo, cosa facciamo, cosa apprezziamo e cosa trascuriamo, in ognuna e in tutte le cerchie di amici con cui ci intratteniamo.

In altre parole, e in vista del suo disegno di dominio, Mark ha realizzato per se stesso quello che l’amministrazione pubblica dovrebbe imporre per aprire l’accesso a tutti. Anzitutto per permettere di eseguire l’insieme dei controlli sull’esecuzione delle regole sulla responsabilità editoriale, sulla rimozione dello hate speech, sul controllo delle fake news, sul bilanciamento della pubblicità elettorale, che animano le preoccupazioni di Ezra Kline. Lo Stato che lascia a Facebook l’iniziativa del controllo, la scelta del metodo di esecuzione, la misurazione del successo dell’intervento, ha di fatto abdicato al suo ruolo, consegnando a Zuckerberg un potere sovrano sul governo della sua comunità.

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