Perché i memi sono come il cioccolato

Meme contro Hillary Clinton circolato nel novembre 2016 soprattutto tra gli esponenti della destra religiosa dei fondamentalisti evangelici americani

I memi sono il formato editoriale più idoneo alla propagazione delle informazioni tramite passaparola attraverso la Rete. Raggiungono audience molto vaste, catturano l’attenzione degli utenti e ne conquistano il favore, in modo tale da motivarli a rilanciare il contenuto verso i loro contatti sui social media e nella rubrica email. La struttura dei memi è articolata su due piani: il primo è costituito da un’immagine o da una breve animazione che spesso sono tratti da notizie di cronaca, film o archivi delle subculture di Internet. Il secondo è composto da una didascalia, sovrapposta in modo arbitrario allo strato figurativo, con l’effetto di modificarne l’interpretazione in chiave parodistica. Nella composizione finale, il meme descrive una breve storia che sottintende un giudizio morale. Spesso il messaggio è umoristico, o sarcastico, ma punta direttamente alla pancia dell’utente, suscitando talvolta intolleranza e rabbia. 

Mutazione genetica dei memi

Quando coniò la parola “meme”, nel 1976, Richard Dawkins non immaginava che sarebbe diventata un concetto chiave per spiegare la diffusione delle idee, soprattutto nella comunicazione politica. Nel corso della campagna elettorale Usa del 2016, gli strateghi russi di Internet Research Agency, inventarono centinaia di “memi”negativi su Hillary Clinton perché fossero diffusi sui social. E dopo l’attentato del 27 aprile alla Sinagoga di San Diego,  Charlie Warzel, sul New York Times, ha scritto che i messaggi di odio sono diventati una specie di“meme”in grado di accelerare la violenza. 

Dunque 43 anni fa Dawkins (che è un biologo evoluzionista) scrisse “Il gene egoista”, che divenne presto un bestseller. In quel libro l’autore si lanciava in uno spericolato parallelo tra genetica e cultura sostenendo che, così come il patrimonio genetico si trasmette attraverso piccole unità ereditarie fondamentali chiamate “geni”, anche la cultura si tramanda grazie a piccole unità culturali (i “memi”) in grado di conquistare le menti delle persone. Allora quell’ipotesi – pur premiata da un grande successo di pubblico – fu considerata azzardata da molti scienziati. Ma negli ultimi vent’anni la parola “meme”è passata dall’astrazione del mondo accademico alla vitalità grottesca dei tormentoni di internet.  Siti come 4chan.org e hanno incubato la nascita, e social media di ampiezza planetaria come Facebook ne hanno sostenuto la diffusione. La fantasia un po’ macabra, molto parodistica (e spesso razzista), che sorge dall’anonimato popolare, è stata reinterpretata dagli esperti di comunicazione politica a proprio vantaggio. Il corpus di contenuti che di regola viene classificato con l’etichetta di fake news è composto in larga misura da memi di quest’ultima generazione. False teorie cospirative di successo come il Pizzagate (che nel 2016 collegò il partito democratico Usa a una rete pedofila) e QAnon (secondo cui esiste uno stato parallelo che cospira contro Trump) sono state alimentate prima di tutto dalla circolazione di contenuti confezionati a imitazione del carnevale semiotico di 4chan. Chi confeziona fake news non segue i modelli austeri del New York Times, ma un formato molto più efficace di intercettazione dell’interesse e di formazione dell’opinione: oggi la piattaforma principale per divulgarli è Instagram, non le colonne di qualche giornale o magazine online.

In un certo senso i memi politici sono l’evoluzione delle vecchie leggende metropolitane in chiave digitale. Con le loro progenitrici condividono l’impossibilità di identificare una fonte riconoscibile, ereditando la loro credibilità dal fatto di essere patrimonio di un’intera comunità, di essere l’espressione di ciò che «la gente dice» (QAnon è un’eccezione a questo riguardo); di prediligere gli elementi che sollecitano disgusto, humor nero o furore, per sedurre l’attenzione e il ricordo; di suggerire una morale della storia, che prescrive opinioni e azioni. Rispetto alle leggende metropolitane della tradizione, non richiedono nemmeno la pazienza di seguire il filo del racconto e di attendere il finale per comprendere il significato del messaggio: la narrazione si chiude nell’istantaneità di un’immagine, che si offre a un accesso in apparenza senza alcuna richiesta di impegno, nemmeno quella del tempo necessario per apprenderla.

Superstimoli culturali

La lunghezza delle perorazioni intellettuali non offre possibilità di competizione. Emanuele Arielli, nel libro Idee virali (scritto con l’autore di questo articolo), definisce i memi come «superstimoli culturali»: l’espressione è presa in prestito dal premio Nobel Nikolaas Tinbergen, che la riferisce alla sostituzione degli alimenti prodotti dalle industrie contemporanee, a quelli disponibili in natura per la dieta dei nostri progenitori. Siamo ghiotti di zucchero perché l’offerta di questo nutrimento è limitata, e il desiderio ne incentiva la ricerca per accumularne le scorte necessarie; ma oggi i processi chimici permettono di fabbricare cibo dolce in quantità industriale a basso prezzo. La concentrazione di zuccheri sugli scaffali di pasticceria scatena stimoli a una concentrazione maggiore di quella naturale, davanti alla quale tuttavia non possiamo opporre resistenza, perché la nostra fisiologia non è evoluta con la rapidità delle rivoluzioni scientifiche ed economiche.

I superstimoli non sono però ristretti al solo ambito della nutrizione: un meme è l’equivante di un muffin al cioccolato per la mente. Seduce come un concentrato di zuccheri distribuiti tra vaniglia, impasto e scaglie di cioccolato, offre la stessa soddisfazione immediata, la stessa intensità di esperienza, lo stesso coinvolgimento e saturazione dei sensi. Non richiede pazienza, non pretende alcuna riflessione ulteriore, non si inserisce in un flusso di interpretazioni che bilanciano istanze diverse, e rigettano la fretta di raggiungere una conclusione indubitabile. La scienza e il pensiero critico si precludono la possibilità di rinchiudere in una formula definitiva tutta la verità su un argomento, con l’eliminazione dei passaggi intermedi, e della loro fatica, per concentrare tutta la verità nella soluzione finale: la lunghezza dell’esposizione è il prezzo che si paga al riepilogo delle tesi che si contrappongono, alla necessità di rispondere alle obiezioni che insorgono, all’iscrizione di tutto il dialogo tra le parti in ogni contenuto.

Non si comincia nemmeno a mangiare se non ci si risolve a passare in rassegna tutte le attività necessarie per rimediare un pasto, cimentandosi nella fatica della caccia, dell’allevamento, della coltura intensiva, e alla fine sobbarcandosi anche il lavoro di mettersi ai fornelli per proprio conto. Un problema che affligge il pezzo che state leggendo (se arriverete fino alla fine avrete trangugiato l’equivalente di circa 9 mila battute), ma che il meme aggira, concentrando in un solo boccone tutta l’esplosione di calorie necessaria. Meno di un centinaio di battute, solo qualche secondo di attenzione, nessuna esigenza di ingaggio per la lettura, nemmeno l’ansia di dover investire il proprio tempo per esplorare il contenuto: il superstimolo è servito.

Strategie di viralizzazione

Ma neanche il meme conduce la vita della particella di sodio, isolato da tutti i suoi simili. Pizzagate e QAnon sono colonie di memi che confluiscono nella formazione di una storia coerente, capace di alludere ad un’intera visione del mondo. Ognuno di loro contribuisce a consolidare un pregiudizio intorno alla credibilità di un tipo di eventi. È il caso della collusione dei leader Democratici con bande di pedofili, coordinati dalla pizzeria di Comet Pong Pong di James Alefantis a Washington, nell’esempio del Pizzagate; o del’operazione con cui Trump sta per sgominare il complotto internazionale dei poteri forti, svelando un tratto per volta le macchinazioni tramate dai Democratici in combutta con i leader della finanza – nell’esempio di QAnon. Esaminiamo questi due casi in un articolo specifico. Segreti, cospirazioni, quello che i giornali non dicono, la congiura di ciò che loro non vogliono si sappia: la dieta informativa dei memi, e del flusso di commenti che li accompagna, enumera questi ingredienti di base, che vengono ripetuti come motti, come missioni cui partecipare, come garanzie di verità. Nulla che possa passare il vaglio della peer review degli esperti, nulla che venga sottoposto al contraddittorio di tesi opposte. Anzi, l’assenza di competenza riconosciuta dalle istituzioni viene vissuta come un valore. La circolazione dei memi non attraversa mai i canali ufficiali, ma privilegia i social media, e in questo momento convola a nozze con Instagram. Esaminiamo la funzione del social network fondato sulle immagini come principale veicolo della guerra dei memi in un articolo di dettaglio sul tema.

Resistenza alla confutazione

Il funzionamento delle piattaforme dei social media favorisce le tendenze alla polarizzazione delle opinioni degli individui che li frequentano; l’assenza di un contraddittorio con posizioni avverse viene trattata come una certificazione di validità dei contenuti. Sono queste due disposizioni della “memetica politica” che contribuiscono a spiegare le ragioni per cui l’esposizione a evidenze, che negano la validità della ricostruzione dei fatti accettata da un individuo, non sia una ragione sufficiente per convincerlo a modificare la sua opinione.

Cass Sunstein già dieci anni fa segnalava che le dicerie mostrano una forte resistenza alla confutazione, e che, in generale, smontare una notizia falsa per convincere coloro che l’hanno già accettata a rigettarla non è una strategia votata al successo: il modo attraverso il quale i soggetti selezionano le informazioni da ricordare è governato dai pregiudizi che tendono a preservare l’ecosistema cognitivo in cui l’individuo è immerso, con l’esclusione inconscia di tutto quello che tende a indebolirlo. I social media collaborano a consolidare alcuni dei nostri meccanismi di autoconservazione più antichi, rivisitandoli per nuovi scopi. D’altra parte, Darwin ha spiegato a tempo debito che l’evoluzione e l’adattamento agli ecosistemi serve alla sopravvivenza, non alla ricerca della verità; la verità può ricoprire qualche ruolo solo quando collabora alla sopravvivenza del più forte, che non necessariamente – anzi, quasi mai – è il lettore dei memi. Lo è il loro creatore, e ancor di più il loro diffusore. La verità è l’oggetto di discussione della questione politica della libertà; la felicità è in apparenza un problema politico, ma in realtà è una questione tecnica. Di questa confusione è responsabile lo stato occidentale moderno, che si è interpretato come amministratore del welfare a spese della libertà; di questo problema si occupa la tecnologia della Rete, che è (per questa ragione) al contempo sede e propulsore dei memi.

  • Questa è la prima parte di una serie di approfondimenti sui memi e la politica.
  • La seconda parte è un’indagine sul modo in cui l’algoritmo di Instagram sta favorendo la comunicazione politica fondata sui memi;
  • La terza parte è una ricostruzione di due campagne di comunicazione realizzate con i memi, Pizzagate e QAnon.
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