Il New deal che cambiò tutto

Quello fu un momento decisivo che innescò un processo in grado di modificare la cultura politica del paese.  

A partire dal 1913, dopo la sua elezione, il democratico Woodrow Wilson mise in piedi il primo efficiente apparato antimonopolio creando la Federal Trade Commission per proteggere il libero commercio dalle attività monopolistiche. E mise Louis Brandeis a capo della Corte Suprema. 

Fu Brandeis il cervello del New Deal. Un suo libro del 1914, “Other People’s Money and How The Bankers Use It”, fu un bestseller e influenzò una generazione di politici ed economisti che costituirono l’ossatura culturale dell’amminstrazione Roosevelt.  (Fu lui, tra l’altro, a impedire al banchiere J.P.Morgan di monopolizzare le ferrovie del New England). Sosteneva che il governo aveva il diritto di regolare la concentrazione della ricchezza e del potere, se veniva minacciato il benessere dei cittadini. Secondo lui l’Antitrust non doveva proteggere i consumatori: doveva proteggere la democrazia. 

Nel 1933 (pochi giorni dopo l’inaugurazione del neoeletto Franklin Delano Roosevelt), Brandeis emise una sentenza (Liggett v. Lee) per proteggere i piccoli business locali (in Florida? controllare) dalle grandi catene: sostenendo che la Grande Depressione era da imputare alla “clamorosa ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito” provocata da una eccessiva “concentrazione della ricchezza e del potere”. E infatti nel secondo New Deal, a partire dal 1935, fu promulgato il Robinson-Patman Act (per proteggere i negozi locali dalle catene) e il Glass–Steagall Act , che separava le banche commerciali dalle banche di investimento impedendo a Wall Street di giocare con la vita dei risparmiatori, come poi è avvenuto con la liberalizzazione partita negli anni di Bill Clinton (che abolì il Glass-Steagall Act, un atto che, secondo molti economisti, è alla base della crisi finanziaria del 2008). 

I protagonisti del New Deal siglarono un contratto sociale con il popolo americano basandosi sulla convinzione che il potere economico dovesse essere decentrato e diffuso tra una molteplicità di attori. Presero alla lettera lo Sherman Act il quale sosteneva che “chiunque voglia monopolizzare sarà ritenuto colpevole di un reato”. Il big business veniva guardato con sospetto. Si pensava che le attività commerciali, le aziende agricole, le banche, dovessero avere dimensioni contenute e sotto il controllo di organizzazioni locali. Si pensava che alcuni settori facessero eccezione, essendo “monopoli naturali”: l’elettricità, la telefonia, il traffico aereo, ma alle aziende che controllavano questi settori – soggette al controllo pubblico nel fissare i prezzi – veniva impedito di espandersi in altri campi. Solo in alcuni settori (l’auto, la chimica, l’acciaio…) nei quali erano necessari ingenti finanziamenti e grandi economie di scala, le concentrazioni venivano tollerate ma sempre con occhio attento al rischio che il loro potere non diventasse eccessivo. 

In quegli anni partirono diverse iniziative antitrust – tra le altre – contro la General Motors, l’Alcoa, l’American Medical Association, l’Associated Press. 

Forse uno degli atti più illuminati di quell’epoca riguarda l’AT&T, l’azienda a cui era stato sostanzialmente affidato il “monopolio naturale” nel mondo della telefonia. È vero, AT&T era un nonopolio, ma l’aziende era stata affettuoramente soprannominata “Ma Bell”, (mamma Bell: i Bell Laboratories erano il gioiello della ricerca americana, il luogo dove furono inventati i transistor) perché esercitava il suo predominio in modo illuminato. Nel 1956 AT&T fu obbligata ad accettare un “consent decree” che la obbligava a dare in licenza gratuitamente tutti i suoi brevetti a ogni azienda americana ne facesse richiesta. Stiamo parlando di transistor, laser, sistemi cellulari, satelliti, celle solari. AT&T poteva mantenere la sua posizione di monopolista, ma in cambio doveva investire ampie quote dei suoi profitti in ricerca e consentire alle altre aziende americane di usufruirne. E infatti, da quei brevetti nacquero aziende come Motorola, Fairchilds Semiconductors, Texas Instrument, Intel, Comsat. 

Un’altra decisione importante – decisiva per lo sviluppo dell settore high tech americano – arrivò nel corso degli anni Settanta, quando il Dipartimento della Giustizia fece causa all’Ibm accusandola di essere un “monopolio verticale” nel settore dei computer: di controllare cioè tutta la filiera, dalla produzione di software agli elaboratori. Il processo durò tredici anni e non portò a una sentenza definitiva, anche perché Ibm accettò di consentire alle altre aziende di produrre software per i propri computer: e fu proprio grazie a questa decisione che decise di concedere a due giovanissimi imprenditori di Seattle, Bill Gates e Paul Allen, l’incarico di mettere a punto il sistema operativo per il primo personal computer Ibm. Una scelta che cambiò per sempre la fisionomia del settore.    

 (I casi At&T e IBM non sono un mero aneddoto storico. Tieniamili a mente perché è proprio traendo ispirazione a quelle decisioni che molti esperti oggi vorrebbero elaborare una strategia per uscire dai monopoli creati da Amazon, Google e Facebook. A quell’epoca, si può dire con un linguaggio passato di moda, il governo americano faceva “politica industriale”. )     

Fu merito di quelle politiche se la produttività aumentò, e il benessere si diffuse creando la middle class più estesa del mondo? 

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