C’erano una volta i Robber Barrons

Può sembrare naif cominciare un libro che parla di Amazon, Google e Facebook partendo dalla metà dell’Ottocento, ma le similitudini tra quello che sta accadendo oggi nel mondo e quanto accadde allora negli Stati Uniti sono davvero sconcertanti e ricordare quello che accadde allora è assai utile a creare un filo conduttore per capire che cosa sta accadendo oggi sotto i nostri occhi. 

Lo scrittore Matthew Josephson in un libro pubblicato nel 1934 descrive l’America degli anni che seguirono la guerra civile (1865) come un paese di “capitalisti corsari, svincolati da ogni regola e non tassati”, gente che “chiedeva mano libera sul mercato con la promessa che, arricchendo se stessi, avrebbero ricostruito il paese negli interessi dei cittadini”, un paese caratterizzato da un’“irrestibile deriva verso il monopolio”. Ed è difficile, rileggendo la trama di quanto accadde nel corso di quei decenni, non trovare un filo conduttore che ci porta direttamente al mondo del XXI secolo.

Nel 2011 la Rivista Forbes ha stilato la classifica dei più ricchi della storia attualizzando i patrimoni di allora con l’inflazione[. Il primo della lista è John D. Rockefeller che con 336 miliardi di dollari risulta l’uomo più ricco della storia del mondo. Seguivano Andrew Carnegie (336) e Cornelius Vanderbilt (185). Bill Gates era solo quarto con  136 miliardi, l’unico imprenditore della nouvel vague digitale a comparitre tra i primi tredici, in una classifica dove oggi figurerebbero certamente anche personaggi come Jeff Bezos e Mark Zuckerberg.

Nel 1900 il 2% degli americani possedeva oltre un terzo della ricchezza del paese, mentre l’uno per cento riceveva un quinto del reddito. Oggi il top 1% degli americani riceve un quarto del reddito annuo, e controlla il 40% della ricchezza complessiva.

Fu allora, tra il 1880 e il 1920, che negli Stati Uniti vennero poste le basi dell’industria moderna. Fu allora che, a partire da una crescente diffusione delle reti elettriche, fu avviata la costruzione delle ferrovie e della rete stradale per la nascente industria automobilistica. Tutte attività che allora diedero origine a una letteratura utopistica dove ciascuna di queste innovazioni sarebbe stata la chiave per costruire la felicità dell’uomo. Il linguaggio è simile a quello utilizzato negli anni Novanta dai cantori della nascente rete Internet, che avrebbe creato un mondo di pace e fratellanza.  

Oggi come allora, i grandi imprenditori, pur nel loro cinismo e nel loro disprezzo verso ogni regola – in un mondo in cui le regole erano in via di definizione e lo Stato ancora molto debole – erano visti “agenti di progresso” almeno nel senso in cui il loro contemporaneo, Karl Marx, utilizzava quel termine, come scrisse Josephson: infatti “grazie alla loro attività, una società essenzialmente agricola e mercantile come quella dei nascenti Stati Uniti fu trasformata in un’economia basata sulla produzione di massa”. È vero, quegli imprenditori rifiutavano ogni etica nel condurre i loro affari,  ma avevano la capacità (e la virtù) di costruire cose nuove. Anche allora, quindi, il ritratto dei nuovi tycoon non era in bianco e nero, ma conteneva molte tonalità di grigio. Coloro che accumulavano quote inusitate di ricchezza provocando crescenti ineguaglianze nella società erano comunque dei “costruttori”, grandi leader che mettevano le basi del “mondo nuovo”.

Fu il New York Times a coniare il termine “Robber Barons” nel 1859, per definire il 

comportamento di Cornelius Vanderbilt, uno spregiudicato imprenditore che dominava il mondo dei trasporti, l’uomo che aveva costruito la flotta più potente e che sarebbe diventato padrone di gran parte delle strade ferrate per collegare la costa Ovest alle altre regioni degli Stati Uniti. Vanderbilt, soprannomitato il “Commodoro”, aveva acquistato il suo primo ferry boat quando aveva 16 anni, con cento dollari chiesti in prestito alla madre, e la sua vicenda personale, fatte le debite proporzioni, assomiglia a quella di tanti miliardari della Silicon Valley che a partire dagli anni Settanta rinunciarono alla laurea o al master in un’università importante per creare l’azienda personale nel garage di casa. Fu Vanderbilt – tra le altre opere – a costruire la Grand Central, la principale stazione ferroviaria di New York.

In seguito la definizione “Robber Barons” venne usata per indicare un’intera generazione di monopolisti: uomini come Andrew Carnagie e Charles Schwab nell’acciaio, Andrew Mellon e J.P.Morgan nella finanza, solo per fare alcuni nomi divenuti leggendari e soprattutto John D. Rockefeller, l’uomo che in pochi decenni divenne il padrone dell’industria petrolifera sotto l’egida della sua Standard Oil. 

Quello di Standard Oil è il caso di scuola più citato da quanti oggi considerano Amazon, Google e Facebook insostenibili monopoli. E se andiamo a rileggere le cronache dell’epoca (stiamo parlando della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento) vediamo emergere diverse similitudini. 

Innanzitutto la popolarità dell’azienda: la Standard Oil era un’azienda amata dai cittadini, e lodata da gran parte della stampa (talvolta prezzolata), per i benefici che aveva portato alla grande maggioranza della popolazione, specie quella meno abbiente. 

Per capire l’importanza della Standard Oil basti pensare che nel 1863, quando l’azienda fu fondata, per illuminare le case era necessario l’olio di balena, che solo i ricchi potevano permettersi.

Le cose cominciarono a cambiare rapidamente dopo il 1885, l’anno in cui la Standard Oil mise a punto una tecnica a basso costo per raffinare il cherosene. Rockefeller divenne presto una sorta di leggenda perché – nell’immaginario collettivo – veniva visto come un benefattore dell’umanità per la sua ansia di abbattere i costi dei prodotti messi in vendita e il suo desiderio di allargare il mercato fino ai ceti sociali più bassi. Rockefeller era considerato un grande innovatore, la sua azienda assumeva scienziati eccellenti per mettere a punto nuove tecniche di raffinazione e di trasporto dell’olio combustibile, la sua attività migliorava la vita delle famiglie perché consentiva al combustibile di raggiungere ogni angolo del paese a prezzi accessibili, consentendo a un numero crescente di persone di scaldarsi e di illuminare le proprie case. 

L’ossessiva attenzione all’innovazione dava alla Standard Oil un enorme vantaggio competitivo rispetto alle altre aziende, e Rockefeller sfruttò questa superiorità utilizzando ogni metodo, anche i più cinici, in un’epoca in cui le regole erano in via di definizione, per danneggiare i concorrenti. Un esempio emblematico spesso citato dagli storici è quello della Lake Shore Railroad, una società ferroviaria che nel 1868 siglò un contratto con la Standard Oil a 42 centesimi di dollari al barile, che corrispondeva a uno sconto del 71% rispetto alle tariffe normali, purché l’azienda di Rockefeller garantisse il trasporto di una certa quantità di combustibile. Le compagnie più piccole – che non erano in grado di offrire simili quantità di merce e quindi di ottenere un prezzo concorrenziale – protestarono invano. Ma poterono farlo solo quando vennero a conoscenza degli sconti perché le clausole dei contratti che la Standard Oil siglava con i gestori delle ferrovie dovevano restare segreti. Rockefeller strappava prezzi incredibilmente bassi e manteneva gli accordi riservati per danneggiare i concorrenti, spingere le piccole aziende al collasso per poi acquistarle a prezzi di saldo e – quasi sempre – chiuderle.

(Nel Far West della prima industrializzazione, mano a mano che i grandi monopolisti conquistavano potere, le condizioni di lavoro e di vita dei più deboli peggiorarono. E a causa di questo malessere esploserorivolte di massa che finirono nel sangue: le più note – l’Haymarket Riot a Chicago nel 1866 e l’Homestead Strike a Pittsburgh nel 1892 – corrispondono ad altrettante sconfitte dei movimenti di massa che si svilupparono nel paese per contrastare le crescenti ineguaglianze e chiedere migliori condizioni per i lavoratori. )

Ma questo non impedì che lentamente si sviluppassero anticorpi per opporsi al potere crescente di questi colossi. 

In quel clima di eccessi e di abusi, nel 1890 fu votato lo Sherman Anti-Trust Act, la prima legge federale che limitava i cartelli e i monopoli. L’obiettivo dello Sherman Act non era quello di proteggere le aziende dalla concorrenza di imprese particolarmente spregiudicate e potenti, ma di proteggere gli interessi dei consumatori dagli abusi che queste aziende potevano compiere.  (questo va riscritto pesantemente, ci sono interpretazioni divergenti sullo Sherman Act) 

Ma per diversi anni, fino al primo decennio del Novecento, lo Sherman Act fu praticamente ignorato.

Nel 1900 nella piattaforma elettorale del partito democratico si poteva leggere[: “I monopoli privati sono indifendibili e intollerabili… Essi sono i mezzi più efficienti mai concepiti per appropriarsi del frutti dell’industria a beneficio di pochi alle spese dei molti, e finché la loro insaziabile avidità sarà senza controlli, tutta la ricchezza sarà concentrata in poche mani e la Repubblica distrutta”. 

Nel 1904 la Standard Oil controllava il 91 per cento della raffinazione e l’85% della vendita di prodotti derivati dall’olio combustibile. E siccome la sua produzione superava di gran lunga la capacità di assorbimento del mercato americano, l’azienda creò filiali in Cina e in Medio Oriente, dove vendeva oltre il 40 per cento dei suoi prodotti. 

Nel 1906 il presidente democratico Theodore Roosevelt chiese al ministero della Giustzia di fare causa all’azienda per violazioni dell’Antitrust.

Nel 1909 il Dipartimento della Giustizia, sulla base dello Sherman Act, accusò la Standard Oil di avere ottenuto “fragranti discriminazioni da parte delle ferrovie” a danno dei concorrenti, di avere usato “metodi scorretti nella competizione”, per esempio “il taglio dei prezzi a livello locale per sopprimere le aziende concorrenti”, “lo spionaggio del business delle altre aziende sul mercato”, “la fondazione di compagnie indipendenti fasulle”. L’evidenza mostrava che la Standard Oil “praticava prezzi eccessivi” nelle regioni in cui non esistevano concorrenti, mentre, al contrario, tagliava i prezzi fino al punto di non avere margini di profitto quando i concorrenti esistevano, per distruggerli. (e come vedremo, questi comportamenti ricordano da vicino il comportamento delle aziende digitali di cui ci occuperemo in seguito!)

Il 5 maggio 1911 la Corte Suprema dichiarò la Standard Oil “un irragionevole monopolio” e ordinò che fosse spaccata in 34 compagnie indipendenti con differenti board of directors, creando un precedente che fu applicato per decenni. Quello che fu stabilito era molto semplice: se un’azienda diventa troppo potente e il suo comportamento può essere giudicato anti-competitivo, allora il governo deve intervenire.

Un paradosso: grazie alla sentenza della Corte Suprema John D. Rockefeller divenne più ricco di prima (il più ricco del mondo), perché la somma del valore assunto dalle 34 società risultò superiore a quello della Standard Oil prima della sua frantumazione. 


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