Fine anni Sessanta: la grande svolta

Ogni epoca ricostruisce a piacere la sua narrativa della storia passata,perché la storia viene sempre letta attraverso le lenti dell’ideologia vincente. 

Per molti decenni (nella prima metà del Novecento), nelle biografie pubblicate, personaggi come Mellon, Carnagie e Rockefeller venivano giudicati come cinici approfittatori, sfruttatori dei lavoratori, corruttori delle pubbliche amministrazioni, e il loro comportamento come una minaccia alle istituzioni democratiche. 

Steven Frazer su The Nation[fa notare che, specie a partire dagli anni Sessanta, il vento cambia direzione. Gli scaffali delle librerie cominciano a riempirsi di volumi orientati a riabilitare quei personaggi contestualizzando il loro comportamento nell’epoca storica particolare che stavano vivendo. Certo, la loro ferocia senza limiti, l’attitudine a violare la legge per mandare in bancarotta gli avversari e il totale disinteresse verso le condizioni dei più deboli potevano essere condannate, ma la loro totale mancanza di scrupoli era condivida dai loro avversari, in un’economia di mercato che metteva al centro gli interessi individuali e che aveva come regola generale la regola darwiniana della sopravvivenza del più forte. In altri termini: tutti gli attori che partecipavano a quel gioco usavano le stesse regiole, che erano le regole del tempo. I vincitori erano semplicemente i migliori, quelli che riuscirono a dare la loro impronta al mondo nascente.

Negli anni Sessanta-Settanta si fa strada una nuova cultura che vede i monopoli, in molti casi, come una conseguenza ineluttabile dell’innovazione tecnologica: quando un’azienda individua un vantaggio di tipo tecnologico questo la rende così potente da impedire a chiunque altra di mettere in piedi una concorrenza plausibile. Almeno finché altre innovazioni non cambiano ulteriormente gli equilibri del mercato.

Già all’inizio degli anni Sessanta Alan Greenspan (che nel 1987 fu nominato presidente della Federal Reserve da Ronald Reagan, carica che mantenne fino al 2006) scrisse un influente saggio sostenendo che la rottura della Standard Oil era stato un errore e una scelta del tutto immotivata. [

Greenspan scrisse in modo netto: “L’intera struttura degli statuti dell’Antitrust in questo paese è un’accozzaglia di irrazionalità economiche e di ignoranza. (Le leggi Antitrust) sono il prodotto: a) di un rozzo errore di interpretazione della storia e b) di teorie economiche alquanto naive e certamente irrealistiche”. 

“Storicamente – spiega Greenspan – lo sviluppo generale dell’economia segue il seguente corso: un’industria comincia il suo ciclo con poche aziende; nel tempo, molte di esse si fondono; questo aumenta l’efficienza e fa aumentare i profitti. Quando il mercato si espande nuove aziende entrano sul mercato tagliando la quota di mercato dell’azienda dominante. Questo è stato il pattern nell’acciaio, nell’alluminio, nel petrolio, nei containers e in altre industrie”. 

E questo non dipende – secondo Greenspan – dalla legislazione antitrust, ma dal fatto che è ben difficile impedire che altre aziende entrino sul mercato. 

“Il più formidabile dei “trust””, a cavallo tra Ottocento e Novecento continua Greenspan “fu la Standard Oil. Nonostante ciò, all’epoca in cui fu approvato lo Sherman Act, (siamo nell’era pre-automobile), l’intera industria petrolifera ammontava a meno dell’uno per cento del Pil ed era grande appena un terzo dell’industria delle scarpe. Quello che gli osservatori non videro, tuttavia, era il fatto che il controllo da parte della Standard Oil, alla fine del secolo, di oltre l’80 per cento della capacità di raffinaziona del petrolio, aveva un senso economico e accelerò la crescita dell’economia americana”.  Dice ancora Greenspan: “ci vuole straordinario talento per mantenere oltre il 50% del mercato di una grande industria in una economia di libero mercato. (…) Le rare aziende che sono capaci di mantenerlo anno dopo anno, decennio dopo decennio (…) meritano un ringraziamento, non una condanna”. 

Il mutamento di prospettiva comincia in realtà fin dagli anni Cinquanta, con il dibattito sulla torsione impressa dagli oligopoli al modello classico dell’economia liberale. Kenneth Galbraith è il protagonista dell’indagine sui nuovi assetti del capitalismo americano che caratterizzano la «società dell’opulenza», e l’egemonia statunitense sul mondo occidentale. La sua critica all’impostazione classica dell’economia deriva dall’insegnamento di Keynes, e dagli effetti che le sue teorie hanno ottenuto con l’applicazione al New Deal di Roosevelt. La prima osservazione che Galbraith eredita dal maestro britannico è che non esiste mai un mercato del tutto indipendente dal diritto: l’autonomia del mondo economico è un effetto dell’ideologia più che della realtà empirica. Il modo in cui lo stato decide di esercitare la pressione fiscale, le strategie attraverso le quali incentiva o disincentiva il risparmio dei cittadini, attraverso l’incremento o la diminuzione del tasso di interesse, determinano variazioni sostanziali nei comportamenti di investimento e di acquisto da parte dei singoli e delle imprese. La validità delle riflessioni di Keynes si pone al di là della precisione dei suoi calcoli nel rapporto tra tasso di impiego, debito pubblico e interesse sulla moneta: qualunque sia il livello di intervento dello Stato, si raggiunge una condizione di equilibrio che non si risolve necessariamente nella piena occupazione, né nella devoluzione di tutti i risparmi in capitalizzazione. L’amministrazione pubblica, che si muove in un ambito macro-economico, è l’unico soggetto tra imprenditori, da un lato, e sindacati, dall’altro lato, a perseguire sia l’obiettivo della riduzione al minimo del tasso di disoccupazione, sia quello dell’espansione delle opportunità di investimento al massimo grado possibile. Livello di impiego e quantità di produzione sono due degli indici più importanti del benessere di una nazione. Per questa ragione, lo Stato interviene come mediatore tra i due grandi attori della vita economica, bilanciando di volta in volta il loro potere di negoziazione, ma soprattutto governando le condizioni di crescita o diminuzione del risparmio, dell’investimento, dell’occupazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Galbraith conia l’espressione «potere di compensazione» per denotare il bilanciamento dei rapporti di forza tra gli attori della realtà economica in un contesto sociale che non è più quello della povertà, ma quello dell’opulenza. La scarsità dei beni e i rapporti di concorrenza appartengono ad un quadro della convivenza tra gli uomini che è quello del passato ottocentesco – o almeno di quello pre-bellico. Dopo il 1945 lo scenario economico è dominato da gruppi di imprese che hanno costruito nei settori strategici un sistema di oligopoli, con cui esercitano un potere di controllo sulla società, sui media e sui consumatori. In particolare, la loro forza consiste nella possibilità di sottrarsi alle leggi di funzionamento del mercato, che gli economisti della scuola liberista ritengono spontanee e inviolabili. Nella realtà, quando la produzione di un settore industriale viene controllata in larga parte da un manipolo di pochi marchi, la loro capacità di fissare i prezzi per i fornitori e per i clienti sovrasta le forze che dovrebbero ottimizzare l’efficienza delle interazioni di domanda e offerta. Il potere di acquisto dell’aggregato di aziende che partecipano all’oligopolio infatti consegna loro una forza di negoziazione connessa alla quasi impossibilità per i fornitori di trovare altri clienti, quindi di avviare altri tavoli di trattativa per il collocamento dei prodotti al di fuori del blocco configurato dai giganti del settore. Allo stesso tempo, la loro offerta diretta al pubblico di massa non solo costituisce un volume di disponibilità più esteso degli altri attori di mercato, ma è in grado di catturare l’attenzione delle persone attraverso l’energia di attrazione della pubblicità. Il discorso sulla propaganda commerciale non si limita alla notorietà dei marchi e alla fissazione di loghi, di ritornelli e di slogan nella mente del maggior numero di individui possibile; abbraccia anche la questione della dipendenza dei media (giornali, televisione, radio, cinema…) dagli investimenti degli inserzionisti, e dalla creazione di un immaginario che investe lo stile di vita delle famiglie, che modella i desideri dei singoli, che promette uno status sociale prima ancora del piacere del consumo in sé e per sé.

Non esiste paragone tra i budget con cui gli oligopolisti possono finanziare la visibilità della loro merce, e lo sforzo che può essere sostenuto dalle imprese che invece non si sono assicurate una posizione dominante nel mercato. L’alimentazione del bisogno che il pubblico deve sperimentare di fronte allo spettacolo dei beni offerti dai grandi gruppi industriali, l’aura di invidia sociale e di qualità della vita di cui essi vengono circondati nelle campagne pubblicitarie che li promuovono, rappresentano due cardini del dispositivo di persuasione attraverso il quale l’oligopolio genera il suo potere di controllo sulmercato. Il contenimento delle possibilità di offerta da parte dei fornitori, il loro allineamento nei ranghi di una fascia di prezzo e di qualità da cui non ci si può spostare senza essere emarginati in posizione di difficoltà, costituisce un altro asse di questa forza economica.

Il potere di investimento degli oligopolisti non si limita allo sviluppo dei dispositivi di persuasione riconducibili alla pubblicità e al controllo dei media. Galbraith osserva che la capacità di investimento in ricerca e innovazione è piuttosto limitata nei contesti in cui le regole di mercato funzionano secondo le previsioni della teoria classica. Infatti, le imprese che sono sottoposte alla pressione della concorrenza subiscono una erosione dei profitti al minimo possibile, per sopravvivere alla competizione degli avversari. Di conseguenza, i fondi che possono essere devoluti al rischio della ricerca di nuove tecnologie, di procedure inedite, o dell’offerta di beni non ancora collaudati (o non ancora standardizzati) – tendono a loro volta ad essere ridotti al minimo, se non ad essere soppressi del tutto. Al contrario, le aziende che partecipano dell’oligopolio riducono al minimo i costi pretesi dai fornitori, e concertano i prezzi di offerta al pubblico finale secondo un meccanismo che tutela i margini dalla stretta di una competizione più serrata. Rispetto ai monopoli, tuttavia, quando la leadership di un settore è condivisa da un insieme di grandi compagnie, ciascuna di loro è sensibile al vantaggio – almeno temporaneo – che può procurare l’introduzione di un’innovazione di qualunque genere rispetto all’equivalenza sostanziale di beni offerti dagli altri attori. 

Al contempo, la disponibilità di risorse economiche, di patrimonio intellettuale, e di forza-lavoro, non è sottoposta alle restrizioni che affliggono le imprese inserite in un mercato concorrenziale. Il terzo cardine del potere degli oligopoli è rappresentato quindi dai capitali investiti in ricerca e sviluppo, e dal loro presidio sulla spinta di innovazione tecnologica della nazione in cui sono sorti.

Il pensiero e l’azione politica di Galbraith sono tenuti in scacco dall’ambiguità del dominio esercitato dalle grandi imprese. Il controllo che attivano sulla catena dei fornitori e sul pubblico di massa cade sotto gli affondi della critica intellettuale, che ne rileva la minaccia sia per l’autodeterminazione professionale dei piccoli produttori e dei piccoli distributori, sia per la libertà di opinione della società civile. Al contempo però, gli oligopoli sono i finanziatori dell’innovazione tecnologica, quindi gli unici alleati del governo nazionale per qualsiasi strategia di conquista e mantenimento del primato politico a livello globale. Schumpeter giustifica i profitti degli imprenditori, e i margini molto elevati conseguiti nel periodo di monopolio che segue l’affermazione dell’innovazione – e che precede il momento in cui i concorrenti riescono a completare la rincorsa e a replicare la novità – con il rischio di cui si fanno carico nella fase di investimento per la ricerca e lo sviluppo. In realtà però sono solo gli oligopolisti a sostenere questo genere di costi, e a incarnare l’interlocutore strategico per i leader istituzionali: i soggetti coinvolti sono numericamente gestibili, i loro obiettivi di business sono congruenti con quelli della direzione politica. I vantaggi che i leader nazionali guadagnano dall’alleanza con i giganti dell’economia riguardano sia la forza che può essere esercitata nello scacchiere internazionale, sia l’incremento tendenziale del tasso di produttività che la tecnologia assicura alle filiere industriali. Nella sua funzione di consigliere economico dei presidenti Democratici, da Kennedy a Clinton, Galbraith ha sempre dovuto bilanciare i due fronti su cui si disputa il confronto con le grandi imprese. 

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