Perché Lina Khan, a trent’anni, sta cambiando il mondo

Sostiene che le grandi piattaforme sono come le ferrovie: un’infrastruttura su cui i gestori non devono poter svolgere altre attività commerciali. E le sue teorie stanno dilagando. Il Financial Times l’ha definita “il bambino prodigio nemico numero uno dei titani dell’high tech”. Perché “sta riplasmando il dibattito sul potere delle grandi corporation”. Ne sentirete parlare.

Lina Khan, a trent’anni, è già una stella polare nel mondo dell’economia e rappresenta un incubo per Amazon, Google, Facebook e Apple. Negli ultimi due anni ha scritto due paper nei quali rovescia in modo radicale mezzo secolo di dibattito economico sui monopoli e pone le basi teoriche che potrebbero portare, nei prossimi anni, a rompere il dominio incontrastato che i giganti del web hanno imposto nelle ricerche online, nei social network, nell’ e-commerce. 

L’ultimo, pubblicato il 15 giugno sulla Columbia Law Review, è titolato esplicitamente La separazione tra piattaforme e commercio.

Vedo già qualche lettore alzare il sopracciglio: come è possibile che due “paper”, cioè due articoli pubblicati su riviste specialistiche, possano mettere in crisi giganti il cui potere economico si misura in trilioni di dollari? Eppure nel mondo della tecnologia, dopo decenni di neoliberismo perfetto, sta succedendo qualcosa di molto importante (la sinistra italiana farebbe bene a tenerne conto) e la giovane economista Lina Khan (di origini pakistane) potrebbe essere la palla di neve che fa partire la valanga di un cambiamento culturale profondo, come avvenne negli anni Ottanta quando le teorie della Scuola di Chicago furono il carburante ideologico delle politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. 

Un paio di mesi fa, sul Financial Times, Rana Foroohar ha definito Lina Khan “il bambino prodigio che sta riplasmando il dibattito sulla competizione e sul potere delle grandi corporation”, colei che in un paio d’anni è diventata “il nemico numero uno dei titani dell’high tech”. Siamo a un’inversione di tendenza?  Vediamo. 

Il modello del monopoli web: Amazon

Di Lina Khan si comincia a parlare nel gennaio 2017 quando, ancora studentessa (ventisettenne) alla Yale Law School, pubblica un paper, (Amazon’s Antitrust Paradox, sullo Yale Law Journal ) che mette in discussione le regole che hanno egemonizzato la cultura dell’Antitrust negli ultimi quarant’anni: regole, a suo parere, ormai inadatte al mondo digitale. 

In quell’articolo Khan ripercorre le tappe del travolgente successo di Amazon, a partire dalla sua capacità di sostenere ben otto anni di perdite con la promessa agli investitori di raggiungere un potere assoluto sul mercato grazie all’abbattimento programmato dei prezzi: perché sopportare perdite di diversi miliardi di dollari per otto anni se non per inseguire il sogno di un inattaccabile e lucroso monopolio? E infatti l’espansione di Amazon sembra non avere fine: dalla vendita di libri alla costruzione dell’emporio online più grande del mondo, dalla pubblicità online ai film e alle serie tv, dalla logistica al cloud computing, dalla produzione di hardware (Kindle, Echo Assistant, robotica, droni…) all’intelligenza artificiale e persino alla conquista dello spazio. 

Amazon sfrutta i dati dei venditori che usano la piattaforma per decidere che cosa produrre in proprio, e a quali prezzi vendere, per stroncare la concorrenza. Inoltre, essendo un’azienda “integrata verticalmente”, usa i vantaggi accumulati in un settore per espandersi in quelli adiacenti. 

Fino a ieri la possibilità di attaccare un’azienda come Amazon con le leggi antimonopolio è stata praticamente impossibile, perché la cultura dominante, dalla fine degli anni Settanta, prevede che l’Antitrust debba verificare solo se l’eccessivo potere di un’azienda abbia l’effetto di far aumentare i prezzi per i consumatori. Era stato Robert Bork, un economista di Yale (corsi e ricorsi storici) a scrivere il saggio (The Antitrust Paradox) che mise la sordina all’Autorità Antitrust per un paio di generazioni, contagiando culturalmente non solo i repubblicani di Ronald Reagan (che di quel testo fecero una religione), ma anche i laburisti di Tony Blair, i democratici di Bill Clinton e Barack Obama, e persino i leader della sinistra italiana negli anni Novanta e nel primo decennio di questo secolo.

Da allora le fusioni tra aziende si sono moltiplicate (da 2.300 nel 1985 a 15,300 nel 2017) portando alla creazione di giganti in ogni settore. Soprattutto, sulla base di quella cultura egemone, negli ultimi vent’anni si è sviluppata un’economia digitale che ha consentito a un pugno di aziende di controllare l’economia del web. 

Nell’articolo pubblicato due anni fa Lina Khan descrive minuziosamente l’attività di Amazon e costruisce un parallelo storico con la Standard Oil di John Rockefeller, che nel 1911 l’autorità antitrust americana spezzò in 34 società giudicando il suo strapotere, e soprattutto il suo comportamento, lesivo della concorrenza. Come la Standard Oil di Rockefeller, argomenta Lina Khan, Amazon non solo gode di vantaggi che impediscono una leale competizione sul mercato, ma usa i propri punti di forza in modo distorsivo.  

Da Amazon a Google, Facebook, Apple

Nel lungo articolo pubblicato poche settimane fa Khan allarga l’orizzonte al business dei quattro grandi  del web (oltre ad Amazon: Alphabet/Google, Facebook e Apple) e paragona le grandi piattaforme tecnologiche di oggi alle ferrovie all’inizio del secolo scorso, quando le strade ferrate, che erano la principale struttura di comunicazione degli Stati Uniti, erano nelle mani di imprenditori privati (i Robber Barons: baroni ladroni) che avevano accumulato enormi ricchezze e avevano un potere che entrava in diretta competizione con quella degli Stati. 

L’articolo (121 pagine, 727 note) è dettagliato, minuzioso, scevro di tecnicismi e di astrusità intellettuali, leggibile da chiunque. Khan nota che, nel clima di radicale non interventismo degli ultimi vent’anni, i grandi giganti hanno fatto letteralmente quello che hanno voluto. E in particolare hanno usato il loro immenso potere economico per acquisire qualunque possibile concorrente, allargando così il proprio campo di influenza a settori sempre nuovi. Negli ultimi vent’anni Google ha acquisito almeno 270 aziende tra cui Doubleclick (concorrente principale nelle pubblicità online), AdMod (pubblicità sul mobile), Youtube (competitor di Google Video) Waze (concorrente di Google Maps) e ha fatto man bassa di molte delle società più importanti nell’intelligenza artificiale, nella robotica, nell’energia rinnovabile: o vi arrendete o vi schiacciamo. Facebook ne ha acquisite almeno 92 dal 2007  e ne ha poi chiuse 32, tra cui social network come Nextstop, Gowalla, Beluga, Lightbox. Soprattutto, ha comprato Instagram nel 2012 e Whatsapp nel 2014; più recentemente Oculus, per presidiare la realtà virtuale. Tutto questo è avvenuto senza che le autorità Antitrust abbiano battuto ciglio.   

L’idea centrale è chiara: chi controlla un’infrastruttura non può partecipare alle attività commerciali che su quella infrastruttura si svolgono.  Ci sono esempi eccellenti nella storia americana. Nel 1900 sei ferrovie americane controllavano il 90% del mercato e grazie a questo realizzavano profitti stellari a scapito dei produttori indipendenti, obbligati a pagare artatamente tariffe più alte per il trasporto. 

Quella situazione venne superata impedendo alle ferrovie di avere interessi commerciali in altri settori. Questo tipo di separazione si è fatta strada in altre aree, per esempio nelle banche, a cui fui impedito di competere con i propri clienti in altri settori commerciali: e molto recentemente (nel 2013) Goldman Sachs è stata obbligata ad abbandonare i propri interessi nel business dell’alluminio, perché questo creava distorsioni nel mercato. 

Il messaggio di Khan è di una semplicità disarmante: se è vero che Amazon ha costruito un’infrastruttura nel mondo del commercio elettronico, allora deve esserle negato il permesso di vendere le proprie merci su quella rete; e lo stesso –pur con diverse declinazioni – vale per Google, che ha una posizione dominante nella ricerca; per Facebook, che domina il mondo dei social network; e per Apple, che usa il proprio AppStore per imporre condizioni discutibili ai gestori delle applicazioni.   

L’analisi di Lina Khan è rigorosa e non sempre propone ricette ma sta già ottenendo risultati impensabili. 

Elizabeth Warren, senatrice democratica della California e candidata alle primarie (molti la considerano la più titolata avversaria di Joe Biden nella gara verso la nomination) usa gli argomenti della Khan per chiedere di spezzare i monopoli delle Big Tech.

Makan Delrahim, capo dell’Antitrust del Dipartimento di Giustizia Usa, in un recente discorso a Tel Aviv, in Israele, ha ribadito che il parallelo tra le vecchie ferrovie e le piattaforme digitali di oggi è calzante, e ha sottolineato che “i prezzi bassi e l’offerta di servizi gratuiti non salveranno i giganti del web dall’analisi sui loro comportamenti potenzialmente monopolistici”. 

Al G20 di Fufuoka, in Giappone, Justine Lagarde, numero uno del Fondo monetario, ha detto che “poche aziende con accesso a Big Data e ad avanzate tecniche di intelligenza artificiale possono destabilizzare il sistema finanziario globale.

Ma c’è un messaggio più profondo dei tecnicismi da economista nell’attività accademica di Lina Khan, e lei lo ha spesso ribadito anche nel corso di interviste: la sua ricerca non tratta solo di Antitrust ma di etica. Le leggi Antitrust dovrebbero incorporare un insieme di valori per difendere i deboli dai troppo forti, per impedire che alcune aziende possano diventare così potenti da essere incontrollabili da parte degli Stati. 

Lina Khan si rifà al giudice della Corte Suprema Louis Brandeis, che dettò la linea dell’Antitrust in America per decenni, nella prima metà del secolo scorso, grazie a un libro (“The Curse of Bigness”, la maledizione della grandezza) che partiva da un principio più etico che economico: un eccessivo potere in economia può ledere non solo gli interessi dei consumatori, ma soprattutto quelli della democrazia.

Scrive Khan: “Se i mercati ci portano in direzioni che non sono compatibili con la nostra visione della libertà e della democrazia, è obbligatorio che i governi facciano qualcosa”. 

Rana Foroohar, sempre sul Financial Times, dice che Lina Khan le ricorda Alexandria Ocasio-Cortez, la ventinovenne leader democratica che si è imposta recentemente all’attenzione del mondo per il desiderio di ribaltare vecchi modi di pensare: la natura del potere delle grandi aziende e il ruolo dello stato e nell’economia digitale. Lo stesso coraggio, la stessa freschezza nel modo di esprimersi, come quel bambino che vedendo passare il monarca si alza in piedi e dice: “Il re è nudo”.

Aiutaci a dialogare con tutti

Un commento su “Perché Lina Khan, a trent’anni, sta cambiando il mondo”

I commenti sono chiusi