Perché Google si fa beffe dei sovranisti

La sentenza europea del 24 settembre – sul diritto all’oblio garantito solo all’interno dei confini della UE – mette a nudo la contraddizione tra il diritto tradizionale e quello ai tempi di Internet. Il primo è legato ai confini territoriali. Il secondo ha dimensione planetaria.  

La disputa tra Google e Unione Europea sul diritto all’oblio (che per i cittadini europei vale solo all’interno della Ue, secondo una recentissima sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea) non è un contenzioso giudiziario come gli altri. Il tema discusso infatti non è solo quello esplicitato nel merito della controversia: il diritto alla privacy degli individui e il diritto all’informazione della comunità. Il bilanciamento tra queste due istanze differenzia le soluzioni adottate nelle aule giudiziarie dei diversi Paesi nel mondo, come vedremo tra poco. 

Ma l’implicazione che mi sembra più rilevante riguarda l’interrogazione sulla natura e sui limiti stessi del diritto applicato al mondo digitale: lo si vede nella difficoltà di raggiungere una definizione della fattispecie adeguata a classificare lo statuto e i comportamenti di Google, ma ancora di più nella contraddizione tra la necessità di applicare a livello planetario le decisioni della corte – allo scopo di rendere efficace la risoluzione – e l’impossibilità di valicare i confini territoriali della giurisdizione del tribunale. È questo l’argomento essenziale della sentenza del 24 settembre scorso, da molti criticata come un rinnegamento del quadro normativo delineato dall’Unione Europea nella formulazione del diritto sulla privacy, la General Data Protection Regulation (GDPR).

Il dispositivo del verdetto riepiloga i passaggi della storia che ha portato al suo pronunciamento. 

2010: rimuovete quel link

La turbolenza tra Europa e Google comincia in un tribunale spagnolo, quando nel 2010 Mario Costeja González chiede che venga rimosso dal listato delle risposte il link a un articolo che gli è stato dedicato nel 1998 da La Vanguardia, un giornale locale di Barcellona. La notizia riguardava una vicenda di cronaca giudiziaria, conclusa con un’asta immobiliare ordinata dal tribunale per riparare un debito nei confronti del fisco. Nel 2009 González aveva già tentato di far rimuovere la pagina de La Vanguardia, ma senza successo: il fatto era infatti riferito in modo corretto, e non risultava quindi ammissibile né introdurre correzioni, né eliminare integralmente il contenuto. 

Dopo un iter di oltre quattro anni, il cittadino spagnolo ottiene comunque soddisfazione dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che si pronuncia in favore del suo diritto alla soppressione del link dal motore di ricerca. La sentenza viene formulata non senza difficoltà, e con una decisione che da molti è stata giudicata «politica» e non «giudiziaria», tanto da contraddire le indicazioni dell’Avvocato Generale (l’equivalente della nostra pubblica accusa) Niilo Jääskinen.

Il primo nodo critico verte sulla possibilità di collocare Google in territorio spagnolo, in modo da renderlo trattabile per gli organi giudiziari. Il motore di ricerca non ha nessuna sede identificabile; ma la filiale iberica di Google Inc., che si occupa di promuovere la vendita di pubblicità sui canali online del Gruppo di Mountain View, permette di identificare uno «stabilimento» a cui applicare il diritto europeo. La tesi è che l’advertising è un’istanza fondamentale per il modello di business di Google, quindi la sua presenza fisica in Spagna è sufficiente per avviare la procedura giudiziaria. Da qui in poi però le valutazioni dell’Avvocatura Generale e quelle della Corte del Lussemburgo divergono senza rimedio.

Jääskinen ritiene che, nell’attività del motore di ricerca, si debba distinguere tra il trattamento dei dati personali degli utenti, che effettivamente vengono gestiti da Google, e il controllo sulle informazioni pubblicate nei listati di risposte. I primi sono sottoposti alla regolamentazione della direttiva sulla privacy, i secondi invece riguardano un materiale che viene prodotto secondo modalità sottratte al controllo di Google. 

Qualora la Corte non si trovi d’accordo con questa constatazione, Jääskinen sollecita comunque un’operazione di bilanciamento tra il diritto all’oblio del singolo cittadino, e il diritto all’informazione per l’intera comunità, garantendo il primato del secondo sul primo: la libertà di informazione prevale sulle pretese di riservatezza dei singoli. In particolare, l’Avvocato Generale sottolinea l’importanza di evitare che la sentenza della Corte finisca per autorizzare una giurisprudenza futura in cui ogni richiesta debba essere valutata caso per caso.

Il verdetto rigetta la distinzione tra dati personali e contenuti pubblicati nei listati di risposte; riconosce che il giudizio di ammissibilità sulla richiesta di rimozione dei link produce conseguenze di rilevanza sociale, in cui sono intercettate le esigenze di informazione del pubblico e quelle di rispetto della privacy del soggetto – e stima che questa misurazione debba essere sviluppata caso per caso. 

Comunque, il riconoscimento tributato alla domanda di González afferma un primato del diritto alla riservatezza individuale rispetto alla libertà di espressione. Questa risoluzione supera le istanze della Data Protection Directivedel 1995, ancora in vigore nel 2014, spingendo verso l’esigenza di una nuova normativa europea capace di interpretare la realtà digitale e le nuove condizioni di universalità, interconnessione e utilizzo dei dati, nemmeno immaginabili alla fine del millennio scorso. Per questa ragione si è parlato di sentenza «politica» fin nei primi commenti al verdetto, per lo più con un taglio di approvazione nei confronti della Corte. Le istituzioni dell’Unione hanno in seguito accolto l’invocazione della Corte con l’approvazione nell’aprile 2016 della General Data Protection Regulation (GDPR).

La misteriosa natura di Google

Per raggiungere le sue conclusioni, la Corte Europea ha dovuto anche giustificare la correttezza del diritto de La Vanguardiaa non rimuovere la pagina con l’articolo dal suo archivio. La sentenza implica una differenza di statuto tra editori e Google, in forza della quale al motore di ricerca viene riconosciuto un potere sulla realtàdell’informazione che non appartiene a nessun media tradizionale. Se è chiara la natura degli editori, rimane però non definita quella di Google, se non per la sua forza quasi teologica di materializzazione delle notizie. 

Come avveniva per il Dio dei cristiani, Google può essere descritto solo per negazioni e analogie: non è un editore, non è un servizio di rassegna stampa a pagamento, non è un e-commerce, non produce contenuti propri, ma è decisivo nella vita della moderna società dell’informazione: per questo lo si può descrivere come seguadagnasse dalle funzioni di accesso alle notizie che assicura al pubblico, e come sel’archiviazione nei suoi server garantisse il progetto e il finanziamento della filiera di produzione delle notizie, assicurando la loro rintracciabilità per i destinatari finali. 

In ogni caso, la notizia su La Vanguardiagiace in una condizione di non-esistenza, se non compare negli elenchi di risposte di Google. La realtà viene decisa dai listati del motore di ricerca.

Per di più, dal momento che ogni richiesta di oblio deve essere misurata caso per caso, le nuove domande devono essere inoltrate a Google – per evitare l’intasamento dei tribunali europei. La sede irlandese del motore di ricerca, dopo la sentenza del maggio 2014, ha arruolato un plotone di circa cinquanta avvocati, che da allora processano in media 517 richieste al giorno: il tasso di respingimenti è in discesa dal 70% del 2014 al 55% del 2018 – ma è in calo graduale anche il numero di domande sottoposte dai cittadini europei.

Il nodo critico cui ha risposto la sentenza del 24 settembre 2019 si riferisce a un problema ulteriore della sentenza del maggio 2014: dopo aver dichiarato che Google è la piattaforma che inietta realtà nel lavoro degli editori, e che è il giudice di se stesso quando si tratta di analizzare le richieste di rimozione dei link, bisogna stabilire quanto debba essere ampio l’oblio concesso ai questuanti. 

Nel 2015 la Commissione sull’Informatica e la Libertà (CNIL) dello stato francese delibera una regolamentazione che interpreta la sentenza del 2014 in modo estensivo: il motore di ricerca deve eseguire la deindicizzazione dei link a livello planetario, non solo sul territorio della nazione interessata. 

Google ricorre contro questa decisione richiamandosi a un principio che l’avvocato Kent Walker sintetizza così: «Per centinaia di anni è sopravvissuto un principio condiviso del diritto, secondo il quale una nazione non ha il potere di imporre le sue norme ai cittadini delle altre nazioni». 

Le suggestioni evocate da Walker non lasciano scampo: cosa direbbero i cittadini europei se anche la Cina, la Russia, l’Iran, invocassero lo stesso diritto che la Francia pretende per se stessa, imponendo al mondo occidentale di non trovare su Google tutto quello che i regimi di queste nazioni stimano inopportuno mostrare al pubblico? E per quale ragione la Francia, o l’Unione Europea, dovrebbero rivendicare un diritto che non riconoscono agli altri? Anche senza scomodare ordinamenti politici dittatoriali, basti ricordare che il Giappone, con una sentenza della Corte Suprema del 1° febbraio 2017, dichiara il diritto all’informazione del pubblico più importante del diritto alla privacy dei singoli, quando la notizia riguarda delitti la cui pericolosità richiede l’allerta di tutti. La pedofilia è uno di questi, e il verdetto è stato pronunciato proprio su un caso del genere.

Diritto locale, Google globale 

La sentenza del 24 settembre accoglie di fatto le ragioni di Walker, stabilendo che le decisioni assunte dalle autorità europee non possono pretendere di essere applicate oltre i confini dell’Unione. Da un punto di vista ideale naturalmente le cose non dovrebbero funzionare così. La Corte afferma che le informazioni rintracciate su Google possono scatenare conseguenze sugli individui anche quando vengono reperite all’estero. Per di più, qualunque cittadino europeo può simulare un accesso al motore da indirizzi al di fuori del continente, per esempio tramite il ricorso a un proxy. La rimozione dei link con un vincolo geografico viene quindi penalizzata da un margine di inefficienza che rischia di rendere solo formale il processo di deindicizzazione. 

Tuttavia il diritto è nomos della terra, come asseriva Carl Schmitt, è ancorato alla suddivisione e alla giusta distribuzione del suolo. 

Il Tribunale del Lussemburgo osserva che al momento non esistono trattati tra l’Unione e le altre nazioni in materia di tutela della privacy, quindi non è possibile appellarsi a nessun accordo internazionale per far rispettare le decisioni europee al di fuori del continente. Una circostanza così pura, priva di qualunque intesa politica tra stati sulla gestione dei comportamenti di Google (e in generale degli altri giganti della Silicon Valley), permette di mettere a nudo l’incongruenza che ormai separa il destino di Internet dalla concezione del diritto che ereditiamo dalla tradizione: il secondo è legato alla giurisdizione dei confini territoriali, il primo no. Con buona pace dei sovranisti e dei loro simili, i problemi essenziali della politica attuale riguardano la dimensione planetaria, e non possono essere trattati che a questo livello.

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