La tribù dei social e un anarchico bisogno di caos

Tre ricerche studiano il rapporto tra populismo e social media. E scoprono che un numero enorme di persone vorrebbe sfasciare il sistema e ripartire da zero. Benvenuti nel nuovo nichilismo

Stiamo ri-diventando una società tribale? Rose McDermott e Peter K. Hatemi pensano di sì. I due ricercatori (lei alla Brown University – Providence, Rhode Island –, lui alla Pennsylvania State University) hanno appena pubblicato un paper sulla rivista “Evolutionary Psicology” che vale la pena di leggere: “Tra un secolo – scrivono – guardando indietro nel tempo, gli esseri umani capiranno che nessun progresso tecnologico ha avuto un’influenza maggiore dei social media sulla democrazia”. E uno dei risultati di questa influenza – secondo loro – è che oggi “siamo politicamente vicini alle piccole bande di esseri umani – le tribù (ndr) – che esistevano nelle epoche pre-industriali”. 

Naturalmente si può dissentire da questa analisi, ma è comunque interessante capire come due “psicologi evoluzionisti” (McDermott e Hatemi) valutino il ruolo dei social media nell’esplosione dei movimenti populisti in giro per il mondo.  

E siccome – come sanno i lettori di questo blog – io sono particolarmente interessato ad approfondire questo argomento, in questo articolo descriverò tre lavori di ricerca che si occupano del problema da diversi punti di vista ma che – come vedremo – arrivano a conclusioni non molto diverse. 

1. Ritorno alle tribù

Partiamo dal paper appena citato (il titolo è: To Go Forward, We Must Look Back: The Importance of Evolutionary Psychology for Understanding Modern Politics, Per andare avanti bisogna guardare indietro: l’importanza della psicologia evoluzionista per capire la politica moderna).

I due ricercatori partono da un’idea molto semplice: gli esseri umani non sono poi così diversi da altri animali sociali che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere in un mondo ostile. Si tratta di un tema molto dibattuto negli ultimi tempi.  Molti studiosi sottolineano l’importanza che ha per ciascuno di noi l’esigenza di appartenere a un gruppo coeso e di sviluppare una forte identità sociale: abbiamo bisogno di associarci ad altri simili a noi perché il senso di appartenenza ci fornisce grandi benefici psicologici. 

L’anno scorso Francis Fukuyama ha pubblicato uno splendido saggio (“Identity”) per porre il problema dell’identità al centro del grande dibattito sul populismo. Perché c’è un rovescio della medaglia: una forte identità ci può indurre a discriminare quelli che sono al di fuori della nostra tribù.    

Secondo McDermott e Hatemi, i leader populisti si basano proprio su questi istinti tribali per fare proseliti: grazie al loro carisma e alla loro retorica infiammatoria innescano l’odio e la paura verso il nemico, fanno rinascere l’istinto del “noi contro loro”, e (per usare le parole dei due ricercatori) creano  “un ambiente in cui il desiderio evolutivo di far parte di un gruppo viene sollecitato da meccanismi neurali”. 

Quando gli esseri umani sentono che i propri valori – oltreché il proprio status, la propria famiglia, il proprio reddito – sono sotto attacco, reagiscono in modo istintivo, si chiudono a riccio, si rivoltano contro chi li minaccia. Questo è l’istinto tribale che Donald Trump e i leader populisti europei innescano quando amplificano oltre misura la minaccia posta dagli immigrati. 

Una corretta informazione serve a poco per far cambiare loro opinione, commentano McDermott e Hatemi, perché – come vedremo – le persone che si sentono minacciate si rinchiudono dentro il proprio rancore verso il mondo e non mostrano grande interesse nella ricerca della verità.  

Questo meccanismo di reazione alle minacce percepite c’è sempre stato, ma i social network hanno fornito carburante incendiario alle sollecitazioni dei leader populisti. (C’è ormai una vasta letteratura sugli effetti delle bolle informative generate dagli algoritmi di Facebook e Youtube, solo per fare due esempi).

Nelle società avanzate (dalla prima industrializzazione fino all’inizio di questo secolo) le istituzioni, le élites e i media esercitavano un controllo sull’informazione e le comunicazioni. E la politica poteva basarsi su queste strutture di mediazione per rivolgersi ai cittadini ed esercitare la propria egemonia.

Ora tutto questo è cambiato. Gli individui possono generare e condividere memi e narrazioni narrative totalmente indipendenti dalla intermediazione delle élites. Il discorso politico è tornato a essere chiuso all’interno di gruppi che condividono idee e interessi personali, piccole e grandi tribù che – al contrario di quelle forzosamente locali dell’era pre-industriale – hanno oggi un’audience potenzialmente globale e la possibilità di una diffusione immediata. “Siano diventati tecnologicamente avanzati, ma questo ci ha fatto regredire verso forme di comunicazione politica più immediate, emozionali e personali” scrivono McDermott e Hatemi. 

I due ricercatori non danno un giudizio di valore: si limitano a dire – sapendo si dire un’ovvietà – che la comunicazione tramite il web e i social è meno centralizzata e più democratica, ma la realtà dimostra che è anche più caotica e disordinata. La democratizzazione dei social offre voce a molti ma pone una minaccia seria all’ordine politico sociale esistente per i meccanismi che è in grado di innescare. 

Esiste una soluzione? McDermott e Hatemi non ne indicano alcuna, tanto meno affermano la necessità di cambiare le norme che regolano la conversazione sul web e sui social. Si limitano a constatare che le nuove forme di comunicazione hanno fatto riemergere istinti di chiusura che derivano da caratteristiche fondamentali della natura umana: ma questo nuovo tribalismo, nell’era della globalizzazione, comporta gravi rischi per tutti.   

2. Bisogno di caos

Il titolo della seconda ricerca dice già molto sul contenuto:  “Il bisogno di caos e la condivisione di dicerie politiche ostili nelle democrazie avanzate” (A ‘Need for Chaos’ and the Sharing of Hostile Political Rumors in Advanced Democracies ). 

Il paper (che alcune settimane fa ha vinto il premio per la migliore ricerca nella sezione Psicologia politica della American Political Science Association) è firmato da tre scienziati della politica: Michael Bang Petersen e Mathias Osmundsen della Aarhus University (in Danimarca), e Kevin Arcenaux della Temple University (a Filadelfia, negli Usa). 

I tre ricercatori hanno condotti sei sondaggi (quattro negli Usa e due in Olanda) e hanno intervistato 6.493 persone sul loro rapporto con la società e le istituzioni. Alla fine sono arrivati alla conclusione che in entrambi i paesi una solida minoranza di cittadini manifesta un grande “bisogno di caos”. 

Detto così sembra una forzatura giornalistica, ma andando più a fondo si capisce perché i ricercatori abbiano scelto questa formula.

Petersen, Osmundsen e Arcenaux hanno posto gli intervistati di fronte ad affermazioni molto provocatorie per sondare la loro reazione. E hanno scoperto che il 40% delle persone ammetteva di condividere le seguenti frasi: “Quando penso alle nostre istituzioni politiche e sociali non posso fare a meno di pensare: diamogli fuoco” e “Non si possono risolvere i problemi con le attuali istituzioni: dobbiamo abbatterle e ricominciare da zero”. 

Il 24% era d’accordo con le seguenti affermazioni: “Spesso mi abbandono a fantasie su un disastro naturale che spazzi via gran parte dell’umanità in modo che solo un piccolo gruppo di persone possa ripartire da zero” e “Penso che la società debba essere bruciata dalle fondamenta”. 

I tre ricercatori sono convinti che difficilmente questi cittadini metteranno in pratica i loro pensieri distruttivi: ma immaginate che cosa può succedere quando queste persone si trovano da sole di fronte al computer e navigano sui social dove è facile, con un clic, diffondere pensieri negativi, teorie cospirative, fake-news, o semplicemente commenti offensivi senza curarsi di motivarli, al solo scopo di diffondere odio. 

Queste persone sono così insoddisfatte da sentire il bisogno di fare qualcosa, magari solo cliccando sul web, per abbattere l’attuale ordinamento e  provare qualcosa di nuovo; inoltre non mostrano grande interesse per la verità: sono disponibili a condividere qualunque materiale, anche non coincidente con la propria visione del mondo, purché sia violento, roboante, distruttivo. 

Il ruolo dei social media nella moltiplicazione di questi comportamenti è ovvio: in nessuna epoca storica i cittadini insoddisfatti del proprio status sociale hanno potuto esprimere il loro rancore in modo così efficace. La diffusione senza precedenti delle fake news, delle teorie cospirative, dei messaggi di odio, dei vaneggiamenti antiscientifici è dovuta a questo. Mai nella storia eventi significativi come l’elezione Usa del 2016 e il referendum sulla Brexit sono state disseminate di altrettante menzogne. 

Il desiderio di diffondere falsità non corrisponde alla volontà di esprimere un’ideologia, ma semplicemente l’incontenibile impulso a danneggiare l’élite dominante, e non solo quella politica, anche quelle culturali e scientifiche verso cui queste persone nutrono un irriducibile risentimento.

La ricerca esplora il comportamento di tre gruppi: americani, danesi e migranti di origine non occidentale. In tutti e tre i gruppi gli “amanti del caos”, cioè i nichilisti, sono di gran lunga i giovani maschi con un basso livello di istruzione. 

Non esiste un’indagine di queste portata nel nostro paese, ma i comportamenti degli “amanti del caos” che abbiamo descritto ricordano in modo esplicito i fautori dell’antipolitica, che puntano a distruggere l’esistente senza sapere bene che cosa ci riserverà il futuro. E ciò fornisce una spiegazione, seppur solo intuitiva, alla volatilità del voto in molti paesi europei, tra cui l’Italia.

3. I nuovi anarchici

Un terzo studio, firmato da Mirco Draca e Carlo Schwarz della università di Warwick (in Inghilterra)  arriva a conclusioni non molto diverse, anche se utilizza differenti parole chiave. Il titolo del paper è : “Anarchia in Gran Bretagna (e ovunque): le radici ideologiche del populismo” (Anarchy in the UK (and Everywhere Else): The Ideological Roots of Populism).   

Draca e Schwartz hanno analizzato vent’anni di sondaggi in 17 paesi occidentali (Italia compresa) cercando di capire in che modo siano cambiati i valori culturali dei cittadini: stiamo parlando di opinioni sul divorzio, la prostituzione, l’omosessualità, l’evasione delle tasse, o sulla fiducia nelle istituzioni (parlamento, polizia, sindacati, stampa) più che sugli orientamenti politici espressi. In sintesi, i due ricercatori sono arrivati a formulare le seguenti ipotesi: 

Primo: le etichette “destra” e “sinistra” non sono più adeguate per descrivere il panorama politico fluttuante che ci troviamo davanti: meglio dividere i cittadini in due grandi schieramenti: i centristi (di destra e di sinistra) e gli anarchici (cioè quelli che vorrebbero sfasciare tutto: di destra e di sinistra). 

Secondo: gli anarchici sono più numerosi a destra (27% della popolazione) che a sinistra (17%). (è difficile non notare che la somma fa 41%, molto simile al 40% di cittadini che, nella ricerca precedente, vorrebbe bruciare tutto e ripartire da capo). 

Terzo: le radici della protesta populista erano già ben presenti nell’opinione pubblica fin dagli anni Ottanta, ma queste opinioni latenti sono rapidamente emerse negli ultimi anni sia grazie alla comunicazione digitale (i social), sia, probabilmente, grazie alla crisi finanziaria del 2008 e le politiche di austerity. 

Stesse conclusioni, nessuna ricetta

A impressionare, in questi tre studi, è l’omogeneità delle conclusioni. I tribalismi del primo articolo, la voglia di caos del secondo, le diffuse pulsioni anarchiche del terzo sono tre facce della stessa medaglia: esprimono un diffuso malcontento che è diventato endemico ed esplosivo grazie ai mezzi di comunicazione di massa che si sono diffusi negli ultimi quindici anni. 

C’è un altro elemento che unifica i tre studi: la assoluta mancanza di indicazioni per affrontare e risolvere il problema. Siamo entrati in un terreno per molti versi ancora inesplorato che gli studiosi affrontano riesumando vecchi vocaboli usati in modo metaforico: le nuove tribù globali sono solo lontane parenti delle antiche comunità tribali; e la cultura dei nuovi anarchici digitali non discende certo dalla dottrina di Mikhail Bakunin. Pure, in queste ricerche c’è uno sforza genuino di capire in che direzione ci stia portando l’innovazione tecnologica e come stia modificando la nostra cultura collettiva.  

Credo che abbiano ragione Rose McDermott e Peter K. Hatemi quando scrivono che – ripetendo la citazione iniziale – “Tra un secolo guardando indietro nel tempo, gli esseri umani capiranno che nessun progresso tecnologico ha avuto un’influenza maggiore dei social media sulla democrazia”. Forse, non solo sulla democrazia.

Aiutaci a dialogare con tutti