Le nuove guerre non si dichiarano. Non terminano con un trattato di pace. Non prevedono prigionieri né rispetto dei diritti civili. Si sviluppano in maniera sotterranea, danneggiando infrastrutture nemiche e, soprattutto, modificando in modo subdolo le convinzioni dell’opinione pubblica. È quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi, secondo un Libro Bianco di fonte Usa. E i russi stanno vincendo
Lo scoop di Buzzfeed sulla richiesta di finanziamenti ai russi da parte della Lega sta scatenando illazioni di ogni genere. Visto che non esiste alcun riferimento documentale oltre alla trascrizione dell’audio fornita da Alberto Nardelli, non ho intenzione di aggiungere altre ipotesi a quelle già avanzate da altri in questi giorni; penso valga più la pena inquadrare quanto è accaduto in un contesto che è stato |analizzato nel libro bianco Russian Strategic Intentions. L’indagine è stata commissionata dal Dipartimento della Difesa americano nell’ambito del programma Strategic Multilayer Assessment (SMA), che ha l’obiettivo di esaminare i problemi con un approccio pluridisciplinare: la complessità esige una comprensione complessa.
L’assunto attorno al quale si articolano tutti i contributi dello studio si può riassumere in poche battute: la guerra è cambiata, e (qualunque cosa essa sia diventata) probabilmente ci troviamo già nel bel mezzo del conflitto; ma questa volta gli Stati Uniti stanno soccombendo. Lo svantaggio deriva anzitutto dall’incapacità di riconoscere lo scenario delle ostilità, identificando le parti coinvolte, gli obiettivi dello scontro, le armi – e persino il campo di battaglia.
Come chiarisce già il titolo del “white paper”, la Russia assume il ruolo dell’antagonista, anche se questo ruolo non è definitivo. L’analisi imputa intenzioni bellicose anche alla Cina, che però si caratterizza per modalità di lotta più opache rispetto a quelle di Mosca. Il fronte tuttavia segue un tracciato tutt’altro che lineare. Per esempio, è difficile ritenere gli obiettivi di Vladimir Putin coincidenti con quelli del suo Stato, visto che l’élite della sua nazione si dice convinta – in modo esplicito, nelle risposte ai sondaggi – che l’America non stia perseguendo la politica di aggressione di cui il loro governo la accusa.
Uno dei principali contributori dello studio, John Arquilla, aveva illustrato fin dal 1997 le caratteristiche della nuova forma di conflitto nata con la rivoluzione digitale. Dalla fine delle guerre di religione del Seicento, sul Vecchio Continente il concerto delle nazioni si fonda sul riconoscimento di ogni Stato come un soggetto politico con uguale dignità e identico diritto all’autonomia di tutti gli altri. Da questo assunto derivano i processi che definiscono i conflitti: ogni guerra comincia con una dichiarazione ufficiale, si conclude con un trattato di pace che prevede lo scambio dei prigionieri, e soprattutto non coinvolge la popolazione civile nelle ostilità. Il governo della nazione belligerante che occupa territori del nemico garantisce in queste regioni i diritti sulla proprietà privata e sulla persona: in altre parole, vengono sostituite le autorità amministrative, ma non viene modificato l’ordinamento politico. Si può dire la stessa cosa affermando che al nemico in generale veniva riconosciuta un’identità qualificata dal punto di vista politico, senza degradarlo a delinquente.
Come si sarà intuito dalle premesse, la guerra in cui siamo coinvolti non è stata formalmente inaugurata da una dichiarazione; non è destinata a teminare con un trattato di pace; non prevede prigionieri né il rispetto dei diritti civili e politici. Forse è destinata a non terminare mai, visto che non è mai stata avviata in modo aperto, e soprattutto non si ritiene vincolata a rispettare alcuna prescrizione di diritto.
Non se la cavano tanto meglio le categorie di Von Clausewitz, che rappresentano i punti fondanti di qualunque percorso di formazione per la professione militare. La guerra è 1) esercizio della violenza 2) ha una finalità esplicita 3) che ha uno statuto politico. Lo sviluppo di fatto di un conflitto non dichiarato mette in crisi almeno il secondo punto: nessuna finalità è dichiarata. Del terzo punto parleremo dopo.
Dall’annientamento al controllo
John Arquilla sostiene che la lettura della guerra contemporanea esige una distinzione tra due tipologie di conflitto che battezza netwar e cyberwar: la prima, legata alle strategie di comunicazione, è diretta contro il sapere sociale della popolazione; la seconda prende di mira le infrastrutture (non solo militari) della controparte. La convergenza tra queste due modalità si spiega con il cambiamento di paradigma del conflitto, che non è più diretto all’annientamento del nemico ma al suo controllo.
Secondo la trattazione classica di Von Clausewitz, lo scopo della violenza è costringere il nemico ad assumere decisioni politiche che altrimenti non prenderebbe.
Ma se si possono modificare le ragioni che promuovono le scelte del governo, l’obiettivo viene comunque raggiunto senza dover sparare un colpo né versare una goccia di sangue. La violenza cambia sede: la libertà viene barattata con la rinuncia allo scontro armato.
La netwar sposta lo scontro dal campo di battaglia al sistema delle conoscenze con cui le persone comprendono il mondo e prendono decisioni conseguenti. Tutte le operazioni di trolling e di diffusione delle fake news appartengono a questo segmento della guerra nell’epoca dell’esperienza digitale.
Il paper del Dipartimento della Difesa è stato pubblicato troppo presto per poter includere qualche riferimento alle prodezze di Savoini e dei suoi amici leghisti al Metropol di Mosca. Tuttavia, l’obiettivo di sostenere la campagna elettorale di un partito che si batte per l’abolizione delle sanzioni contro la Russia si configura come un obiettivo politico di tutto rispetto per il governo di Putin.
Le tecniche descritte dallo studio sono molteplici: dal sostegno economico per gli alleati ideologici si passa allo spionaggio delle conversazioni altrui e al monitoraggio sistematico delle tracce lasciate dagli utenti sui social media. L’intelligence e la faziosità di parte, fino al tradimento e al doppio gioco, sono sempre stati ingredienti delle relazioni internazionali. La soglia che è stata valicata con la netwar è la violazione dell’ecosistema cognitivo e del libero arbitrio degli individui. Le tecniche di trolling, di amplificazione delle notizie false online, di microtargeting, di memetica della comunicazione, sono applicate per modificare la rappresentazione della realtà, manipolare l’ambiente relazionale delle persone, adulterare i dispositivi sociali che producono l’autorevolezza, quindi la credibilità, delle informazioni.
Gli Usa stanno perdendo
Sebbene le piattaforme di social media più grandi del mondo siano americane, il libro bianco osserva che gli Stati Uniti sono in questo momento in svantaggio rispetto alle potenze che ricorrono in modo più sistematico agli strumenti della netwar, in particolare la Russia e la Cina. Le presunte manipolazioni compiute dal Cremlino, attraverso i servizi della Internet Research Agency di San Pietroburgo, nel corso delle elezioni presidenziali del 2016, sono una prova della vulnerabilità degli Usa di fronte agli attacchi organizzati da potenze stranere.
Pur senza mai nominarlo, lo studio allude al fatto che la vittoria elettorale di Trump e la sua strategia di ostacolo alle indagini sul Russiagate comportino un ulteriore rischio di ritardo e di indebolimento di Washington rispetto agli avversari. Anche lo scacchiere europeo si profila come un argomento di preoccupazione, dal momento che diverse nazioni – tra cui l’Italia – sono state di fatto espugnate dalla netwar russa e si sono schierate al fianco di Putin sulla questione delle sanzioni. L’alleanza con il Vecchio Continente si sta incrinando e rischia di lasciare isolati gli Stati Uniti.
La creazione di fronti contrapposti all’interno della stessa nazione, con un’opinione pubblica frantumata in tante minoranze da non poter più parlare di una opinione pubblica, o di un corpo politico, ma di fazioni che tentano di prevaricarsi a vicenda secondo le alterne fortune della storia – è un effetto naturale della netwar.
Sabotaggi di fonte ignota
In modo analogo, la cyberwar frammenta il campo di battaglia classico in uno spazio che deve essere gestito attraverso geometrie non tradizionali. Per semplificare la questione, è sufficiente pensare alle azioni di sabotaggio che sono state inflitte nel corso degli anni a diversi paesi in tutto il mondo, senza che nessuno si attribuisse la paternità dell’operazione. Solo per citare qualche esempio:
- nel 2007 il sito della banca centrale dell’Estonia (in aprile), poi quella della Georgia (agosto), vengono messi fuori uso da un attacco DDoS (Distribuited Denial of Service) imputato al – e smentito dal – Cremlino;
- nel 2010 viene messo a segno l’assalto forse più famoso della ancora breve storia della cyberwar, attribuito a (e disconosciuto da) Usa e Israele: tramite l’iniezione del virus Stuxnet nei server della centrale nucleare di Natanz, in Iran, il commando mette fuori uso il reattore danneggiandone le componenti più difficilmente sostituibili. Senza spargere una goccia di sangue, i mandanti di questa operazione hanno imposto un ritardo di anni nella prosecuzione del progetto nucleare della teocrazia persiana;
- una strategia di attacco analoga è stata messa in atto da Israele contro la Siria nel 2007, con il sabotaggio dei radar della base di Tall al-Abuad, i cui segnali sono stati sostituiti da quelli di una normale notte di pace – mentre una flotta di F-151 sorvolava tutto il paese e radeva al suolo la centrale nucleare in costruzione a Dayr ez-Zor;
- il 15 agosto 2012 tocca ai russi (presumibilmente) attaccare il sistema informatico di Saudi Aramco, l’impresa petrolifera più grande del mondo, a capitale saudita e americano. Il virus cancella i dati delle macchine che vengono infettate e ne rende impossibile il riavvio. 30 mila computer, tre quarti del totale, vengono colpite dall’epidemia paralizzando la società per diverse settimane. L’aggressione ha carattere dimostrativo, visto che vengono comunque risparmiati i server con i servizi SCADA di gestione degli impianti;
- al 2015 risale l’incursione (con una chiara «impronta» di matrice russa) nei server del Partito Democratico americano, con la sottrazione dei dati sui donatori – e naturalmente il furto delle mail di Hillary Clinton, che hanno giocato un ruolo di primo piano nella campagna elettorale per la Casa Bianca vinta da Donald Trump.
Scontro tra pirati
Come chiarisce Flavio Pintarelli, il nuovo campo di battaglia quindi non è più un luogo che oppone due avversari che si percepiscono frontalmente, entrano in contatto fisico in un contesto di segnali formali che chiariscono ragioni e finalità dello scontro. Qualunque luogo può diventare la sede di un combattimento, e per lo più la sfida viene consumata in una dimensione che si sottrae alla capacità sensoriale che consente di riconoscere l’evento in corso. Per lo più, anzi, chi dovrebbe presidiare il terreno della mischia è esposto ad informazioni che lo persuadono dell’inutilità di qualunque manovra difensiva, o della sua impossibilità.
Sul terreno della cyberwar gli Stati Uniti sono più preparati rispetto alla netwar, e in effetti Obama l’ha inserita ufficialmente dal 7 luglio 2016 tra le dimensioni di protezione militare, dopo la terra, il mare, l’aria, lo spazio. Eppure non sono più competitivi nei confronti degli avversari quando la convergenza tra cyberwar e netwar comincia a verificarsi anche nella struttura dei contenuti, come con l’attacco ai server del Partito Democratico.
L’obiettivo infatti è allo stesso tempo la violazione di un’infrastruttura vitale per il nemico, e la creazione di una rappresentazione della realtà che modifichi le decisioni del corpo elettorale. Lo scopo ultimo è l’inoculazione di un’opinione in qualche modo favorevole al disegno tattico di Putin.
Il quadro dell’arte della guerra digitale appare così intricato che non è nemmeno chiaro se il risultato del conflitto possa essere quello di un gioco a somma zero (se qualcuno vince gli altri perdono) oppure se non sia possibile più nemmeno stabilire con chiarezza il risultato finale della partita.
Christopher Marsh (in uno degli articoli del libro bianco) constata che una situazione di belligeranza che oppone minoranze sociali ad altre all’interno dello stesso paese, come quello che viene prospettato dalla netwar, non può più essere ricondotto all’impianto dei conflitti classici tra nazioni. Il piano di Putin di risollevare la Russia a uno statuto di potenza mondiale è condiviso da una parte della popolazione, ma non dall’élite del paese – per lo meno non alle condizioni in cui lo persegue il presidente.
La guerra ha cambiato il suo luogo e il suo tempo. Non inizia, e forse non termina mai, persegue obiettivi fissati da minoranze che non coincidono con gli stati nazionali ma che interpretano di volta in volta gli interessi di una fazione, si comporta non come gli eserciti regolari classici ma come una ciurma di pirati – e percepisce i suoi avversari non come soggetti di diritti civili, ma come altrettante ciurme di pirati.