Un video truccato mostra la leader democratica Nancy Pelosi ubriaca sul palco. Il presidente Trump lo diffonde. Facebook si rifiuta di cancellarlo. E la discussione che nasce affronta nodi difficili da sciogliere: la censura nell’era digitale, e gli effetti sorprendenti delle bugie…
Il recente caso di un video truccato diffuso sui social, negli Stati Uniti, ha aperto un dibattito che sintetizziamo in due domande:
- è lecito censurare le bugie?
- davvero le bugie si stanno trasformando in un’imbattibile strumento di propaganda?
Ricapitoliamo. Qualche giorno fa qualcuno pubblica online il video di un discorso di Nancy Pelosi (Speaker democratico alla Camera dei deputati Usa) con un abile ritocco: il video è rallentato ad arte in modo da far sembrare ubriaca la donna. Il video finisce sul sito della rete tv Fox News (di tendenze conservatrici) e viene condiviso con un ironico tweet dal presidente Trump che, come noto, è un twittatore compulsivo. Esplode la polemica, Trump si rifiuta di cancellare il tweet, il video viene visto da due milioni di persone in poche ore, e presto circolano 17 versioni leggermente diverse dello stesso video. I giornali democratici puntano il dito contro Trump, quelli conservatori ironizzano, YouTube cancella il video mentre Facebook si rifiuta di farlo e viene duramente attaccata dalla stessa Pelosi che accusa il social network di “contribuire alla disinformazione, come ha dimostrato nelle elezioni del 2016, quando evitò di contrastare la propaganda russa: un simile comportamento significa mentire al pubblico”. Al contrario i conservatori plaudono al comportamento di Facebook, dopo averla a lungo accusata di diffondere con più solerzia i contenuti di sinistra e di avere cancellato gli account di personaggi di estrema destra.
La posizione di Facebook viene ribadita dai suoi dirigenti: quando si rendono conto che una notizia è falsa, o fuorviante, si limitano a rallentarne la diffusione, smettendo di “consigliarla” agli utenti. Cancellano i contenuti che invitano alla violenza ma consentono agli utenti di andare sopra le righe, perché questo innesca discussioni e contribuisce alla costruzione della comunità. Che diritto hanno di decidere che cosa è vero e che cosa è falso? Per dimostrare di essere impegnati a lottare per una rete sana, dichiarano di avere ha cancellato 2,2 miliardi (!) di account falsi negli ultimi tre mesi e diversi account Instagram che sembravano legati all’Iran.
I critici ribattono che in realtà a contare, per Facebook, è solo l’algoritmo che cinicamente massimizza il tempo che gli utenti passano sulla piattaforma. Ma è un argomento debole, che non coglie il nocciolo della questione: quello della censura nel mondo digitale è un argomento molto scivoloso. E infatti la polemica non è solo tra progressisti e conservatori. Anche a sinistra molti giustificano la politica di Facebook.
Anche Technology Review, la rivista del Mit, si schiera a favore di Facebook con un articolo di Angela Chen dove si sostiene che, lungi dall’essere una “fakenews” il video truccato della Pelosi è solo un esempio di malainformazione (secondo una definizione di Hossein Derakhshan, ricercatore del Media Lab) cioè informazione vera manipolata per procurare danno. In altri termini, sarebbe giusto cancellare un filmato in cui si fa dire alla Pelosi una cosa che lei non pensa (per esempio un’affermazione razzista) ma un filmato che la rallenta facendola sembrare ubriaca può essere considerato una forma di satira. Che cosa direbbero gli intellettuali di sinistra se Facebook cancellasse i video che deridono Bolsonaro o Trump?
Prosperare sulle bugie
L’aspetto paradossale è la convinzione, sempre più diffusa, che la diffusione delle fake news paghi. E non solo per la vecchia “teoria dell’ossigeno”, secondo la quale smentendo una cosa falsa si garantisce una vita più lunga alla menzogna.
Yasmine Green, il direttore di ricerca di Jigsaw, la società di Google incaricata di trovare soluzioni ai problemi della rete, si spinge più in là. Green ha coniato una definizione: “Il dividendo del bugiardo”. In altri termini, smascherare un falso (video, audio o testuale) alimenta la credibilità delle menzogne perché, anche quando una fake news è dichiarata tale, diventa più difficile per la gente credere ad alcunché su quell’argomento. Smascherare una bugia alimenta il dibattito sulla sua veridicità e questo crea una cortina fumogena, dentro la quale i contorni della verità diventano sfumati e nei cittadini disponibili a credere a quella menzogna nasce il sospetto che qualcosa di vero ci sia.
Alla fine gli spacciatori di fake news alla fine ne traggono comunque vantaggio perché riescono a creare un alone di dubbio che affievolisce gli argomenti di chi sostiene la verità. In fondo non c’è niente di nuovo sotto il sole. Una tecnica analoga fu usata per decenni dall’industria del tabacco e del petrolio, che hanno basato la propria disinformazione su bugie che confondevano le idee all’opinione pubblica e facevano nascere (nei fumatori e negli automobilisti) il sospetto che certe notizie sul cancro (collegato alle sigarette) e sull’inquinamento (associato al petrolio) fossero solo montature. E oggi quanti si oppongono al consenso del mondo scientifico sul riscaldamento globale traggono alimento da questa stessa contraddizione.
L’avvento delle Deepfake news
Il problema è destinato a diventare ancora più serio perché gli strumenti di intelligenza artificiale per truccare i video e gli audio stanno diventando sempre più avanzati e facili da usare e presto nessuno distinguerà la vera voce e le vere sembianze di un politico da quelle finte, e le fake news diventeranno “deepfake” news, un nome già pronto per descrivere oggetti molto più sofisticati di quelli di oggi.
L’unica soluzione – quella utilizzata in Finlandia di cui abbiamo parlato nella newsletter della settimana scorsa – è investire nella cultura collettiva: addestrare i cittadini, soprattutto i giovani nelle scuole, a distinguere il vero dal falso risalendo alle fonti e confrontandole tra di loro. Ma è un discorso complicato, specie dalle nostre parti.