Facebook, il Corriere e il giornalismo in ginocchio

Il Corriere dedica la copertina di Sette a Sheryl Sandberg, numero due di Facebook. Un’intervista esclusiva di otto pagine. Senza una sola domanda vera. Perché?

Alcuni giorni fa, in occasione di una molto citata intervista del Financial Times a Vladimir Putin, Jacopo Barigazzi (giornalista di Politico oltreché mio amico) faceva notare che si trattava di un’“intervista in ginocchio”, senza il minimo contraddittorio, neppure quando il presidente russo diceva che il liberalismo è morto perché gli immigrati stuprano: perché mai non fargli notare che si trattava di una sciocchezza? 

Leggendo le osservazioni di Barigazzi ho cominciato a chiedermi perché sempre più spesso (sui giornali e in tv) ci troviamo di fronte a interviste (deontologicamente) scandalose e mi era venuta la tentazione di scrivere qualche sintetica riflessione in merito. Quand’ecco che stamattina mi capita davanti agli occhi la copertina di Sette, il magazine del Corriere della Sera, che annuncia un’intervista a Sheryl Sandberg, numero due di Facebook: grande foto in bianco e nero del suo viso sorridente, e sotto il nome in rosso: “Sheryl Sandberg. Gli affari, il femminismo, il lutto. Non solo Facebook, io sono così”. Due le firme: Martina Pennisi e Barbara Stefanelli (direttore di Sette). 

Non sono solito criticare i colleghi, ognuno di noi ha commesso errori e ha compiuto passi falsi, il giornalismo è una merce che si consuma (e si produce) in fretta e il rischio di essere superficiali è dietro ogni angolo. Ma c’è un limite che separa il giornalismo (anche quello mediocre) dalla comunicazione aziendale. E in questo caso è stato abbondantemente superato. Provo a spiegarmi. 

Sheryl Sandberg per il mondo

Sheryl Sandberg è una donna intelligente e affascinante e negli ultimi vent’anni ha giocato un ruolo chiave nel processo che ha stravolto l’ecologia dei media mettendo le piattaforme al centro di Internet. È stata lei, quando era a Google, a sviluppare il meccanismo pubblicitario, basato su AdWords e AdSense, che ha fatto diventare il motore di ricerca una macchina da soldi (e che sta distruggendo i giornali). Ed è stata lei, passando a Facebook nel 2008, a far decollare il fatturato del social network grazie a un modello pubblicitario basato sui nostri rapporti personali  (il “grafo sociale”), i like e le condivisioni; sempre lei a consentire ai pubblicitari di collegare i loro dati a quelli di Facebook.

Quando è esploso il caso Cambridge Analytica fu lei a finire sulla graticola: il New York Times scrisse che aveva minimizzato la disinformazione che i russi diffondevano nella campagna elettorale del 2016. Ancora il New York Times la accusò esplicitamente non solo “di avere posto gli interessi della sua azienda – e della propria immagine – al di sopra dei bisogni della democrazia”, ma anche “di avere – lei, influente e rinomata femminista – contribuito alla sconfitta storica della prima candidata donna alla presidenza degli Stati Uniti”: Hillary Clinton.  

In questo decennio, sotto la sua guida, Facebook è stata al centro di proteste di ogni genere per la violazione della privacy degli utenti, ha consentito ad altre aziende di utilizzare i nostri dati in modo poco etico e spesso illegale, è stata infiltrata da milioni di impostori, tanto che recentemente il social network ha ammesso di avere eliminato oltre due miliardi di account falsi dall’inizio dell’anno. Sotto la sua guida, grazie a un’infinità di violazioni della legge, Facebook ha ricevuto multe miliardarie ed è oggi nel mirino dell’autorità antitrust sia in Europa sia negli Stati Uniti.

Le proteste nei confronti del suo modo di gestire Facebook hanno contagiato anche gli azionisti dell’azienda: recentemente un terzo di loro ha votato contro la riconferma dei due leader (Zuckerberg e Sandberg) ai vertici aziendali e il 70% ha chiesto l’introduzione di un board indipendente per governare Facebook. (Inutilmente: Zuckerberg, che possiede il 13% delle azioni della società, controlla il 58% dei voti grazie a un meccanismo che consente di “pesare” diversamente le azioni). David Lirkpatrick, autore di “The Facebook Effect”, ha detto che “Sheryl Sandberg non ha saputo risolvere il problema delle fake news, non è riuscita a controllare l’odio che dilaga sui social, e così ha indebolito la democrazia. Il mondo sta pagando il prezzo della sua incapacità di governare il meccanismo da lei stessa inventato”. 

Sheryl Sandberg per il Corriere

Ebbene. Nessuno di questi argomenti è stato trattato nel corso dell’intervista di otto pagine. Solo domande sui suoi allenamenti quotidiani, le visite in Italia, il movimento MeToo, il suo attivismo femminista e il suo giudizio sul ruolo delle donne in azienda. (Neanche il suo stipendio annuo – 23,7 milioni – e il suo patrimonio – 1,7 miliardi di dollari – sono stati citati). Ne emerge un ritratto agiografico, mieloso, accattivante, empatico. Sheryl la Femminista senza macchia, Esempio luminoso, Leader integerrima, Vedova addolorata.

Mi fermo qui e mi chiedo: perché? Perché accade sempre più spesso che i giornalisti, invece di  cercare risposte dagli intervistati, si propongono come meri megafoni?

Certo, pesa il meccanismo psicologico della contiguità con il potere, la gratificazione di essere ammessi nei salotto buoni, di sviluppare amicizie importanti. Il capo delle pr di una grande azienda ti fornisce delle notizie, osserva come le usi, verifica se si può fidare, poi ti propone un’intervista di peso, chiede garanzie sulle domande, pretende di rileggere il testo finale… Questi meccanismi esistono da sempre, ma negli ultimi anni – con l’appannamento del potere dei giornali – stiamo assistendo a uno scivolamento progressivo che in certi casi ha il sapore della resa. 

Credo che, almeno in parte, questo fenomeno sia dovuto alla disintermediazione consentita da Internet: cioè al fatto che grazie alla rete (e ai social) chiunque può collegarsi direttamente al pubblico saltando la mediazione dei giornali. 

Non solo fake news

Fu Beppe Grillo il primo a capire la debolezza dei media tradizionali: per anni rifiutò di parlare con i giornali e di andare in tv, e obbligò i militanti del M5s a fare altrettanto. E quando i Cinque Stelle cominciarono a frequentare gli studi televisivi, lo fecero – da posizioni di forza – imponendo le loro condizioni: chiedevano garanzie sulle domande, sugli altri ospiti, sugli applausi della platea.

Amici che lavorano per le tv mi raccontano come questo mercato sia diventato ormai la norma per tutti i partiti e tutte le tv: ogni giorno si intrecciano trattative sui personaggi da invitare (un leader alle 9 in cambio di tre personaggi minori nel pomeriggio e due in tarda serata) sugli ospiti da affiancare, sulle domande permesse e quelle proibite, sugli applausi in sala. Non ci sono solo le fake news. Ci sono anche le fake interviews.  

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