Facebook e il diritto di mentire per i politici

Mark Zuckerberg tiene un discorso sulla libertà di parola. Dove difende la scelta di non censurare le menzogne di Trump; racconta la sua idea di libertà di espressione; e spiega perché Facebook è indispensabile alla democrazia. Ma cade in qualche contraddizione

Giovedì 17 ottobre Mark Zuckerberg ha tenuto una conferenza alla Georgetown University sulla libertà di parola e di espressione, e sui valori democratici universali. Questa volta non si trattava di un discorso di circostanza, in cui formule assiologiche e belle parole servono a far brillare il relatore e a dare un po’ di smalto all’immagine della sua azienda. Insomma, alla Georgetown University non è stato allestito un teatrino di soft power, ma una scena del dibattito sul vero potere, che entra in gioco quando si parla di elezioni presidenziali, di formazione e di manipolazione dell’opinione pubblica, di bilanciamento di forze politiche a livello nazionale e internazionale.

La menzogna politica è legittima!

Il primo riguarda da vicino il core business della sua impresa: interviene nella discussione sulla legittimità per Facebook di divulgare annunci pubblicitari con esplicito orientamento politico, che contengono affermazioni false. In particolare, la presa di posizione di Zuckerberg si schiera contro gli analisti che hanno avanzato la proposta più radicale: TechCrunch per esempio ha richiesto che tutti i social network si astengano dal pubblicare qualunque tipo di contenuto classificabile come marketing politico. «Permettere falsità nella pubblicità politica potrebbe funzionare se avessimo una democrazia modello, ma non l’abbiamo».

Nella battuta iniziale dell’articolo di Josh Constine si trova la sintesi di tutte le criticità che le istituzioni politiche dell’Occidente stanno attraversando. Gli ingranaggi che mancano al dispositivo della vita pubblica americana (ma non si potrebbe dire lo stesso della nostra?) si possono elencare in tre punti: «I candidati sono disonesti, gli elettori non sono preparati, i media non sono obiettivi».

Constine insiste sulle conseguenze distopiche di questi problemi: i link collocati nel contesto delle notizie false, divulgate dalla pubblicità online, portano i lettori verso siti in cui possono offrire donazioni per sostenere le liste politiche che mentono. I soldi che vengono raccolti attraverso questo meccanismo rinforzano il potenziale di spesa dei bugiardi, che a questo punto possono investire ancora di più per diffondere falsità, con cui accrescono le loro opportunità di rastrellare fondi sempre maggiori. La distopia della post-verità è un motore che rigenera il proprio carburante come le energie rinnovabili.

Facebook indispensabile alla democrazia?

Zuckerberg sostiene che il ruolo di Facebook è indispensabile alla vita democratica degli Stati Uniti e di tutti i paesi in cui il social network è attivo. Infatti, la piattaforma ha permesso anche ai candidati minori di far sentire la loro voce, grazie ai costi molto modesti con cui è possibile accendere una campagna pubblicitaria su Facebook. I media tradizionali, TV, giornali, radio, pretendono una soglia minima di investimento che solo i miliardari o i rappresentanti di interessi ben finanziati possono permettersi. Al contrario, Facebook garantisce un buon grado di visibilità anche con budget ridotti, persino di poche decine di dollari. Constine osserva che negli uffici di Menlo Park sembra circolare come assodata l’equazione tra «libera espressione» e «pubblicità», perché – come ammette il CEO di Instagram Adam Mosseri – su tutto ciò che non è advertising, sembra piuttosto difficile distinguere tra un discorso che è classificabile come politico e ciò che non lo è.

In ogni caso, Zuckerberg invita a ritenere una vera e propria missione il ruolo di Facebook nella propagazione della voce di tutti i candidati politici, in particolare di quelli minori. Nel 2016 il fatturato del social network derivante dalla pubblicità arrivò a 27 miliardi di dollari e gli annunci di tipo politico rappresentavano una fetta di soli 81 milioni. L’anno scorso il fatturato di advertising di Facebook ha raggiunto i 55 miliardi, mentre la quota proveniente dagli investimenti dei partiti per le elezioni di medio termine si è fermata a 284 milioni.

Zuckerberg sostiene che tutti gli annunci sono vagliati da una falange di 35 mila moderatori, il cui compito è impedire l’interferenza di potenze straniere sul corso della campagna: il costo di questa operazione supera i 5 miliardi di dollari – rendendo di fatto il settore politico un costo per la società. I controllori sono incaricati di rimuovere o ridurre i contenuti che mostrano caratteristiche di pericolosità oggettiva; ed è proprio questa oggettività a circoscrivere la pericolosità allo stretto necessario.

Dentro questo perimetro non c’è spazio per le bugie dei politici, che sono libere quindi di circolare su Facebook. Nel 2019 Donald Trump ha già investito 4,9 milioni di dollari in annunci sul social network; i 23 candidati Democratici alle primarie ne hanno spesi complessivamente 9,6. La polemica sul comportamento di Facebook è stata rilanciata nelle scorse settimane a causa di due campagne sostenute dal presidente in carica, che divulgano notizie false. La prima sostiene che i Democratici vogliono abrogare il Secondo Emendamento della Costituzione, quello che permette a ogni cittadino americano di possedere armi da fuoco. La seconda, contro Joe Biden, è correlata alle ragioni su cui si fonda la proposta di impeachment del presidente: l’accusa che il candidato alle primarie Democratiche abbia intrattenuto rapporti illeciti con l’Ucraina. In tutti questi casi Facebook ha rifiutato di rimuovere gli annunci tacciabili di menzogna.

Constine osserva che la preoccupazione di Zuckerberg di dar voce ai candidati minori dimentica l’evidenza che i candidati maggiori sopraffanno la visibilità e gli argomenti di tutti gli altri, grazie alle dimensioni molto più vaste e rumorose delle loro campagne: dimensioni che tendono a ingigantire sempre più proprio grazie all’effetto di autoespansione che il rapporto menzogne-donazioni continua ad alimentare.

La politica ridotta a tifo calcistico

A questo proposito è interessante citare l’opinione di Jason Stanley, un filosofo del linguaggio che insegna all’Università di Yale e da oltre dieci anni esamina l’evoluzione della propaganda politica nell’epoca della comunicazione digitale. Stanley riassume le sue analisi in un’intervista rilasciata a Vox il 18 ottobre.

Secondo lui oggi la propaganda politica non è più intesa a formare il pubblico su una visione del mondo a larghe tese, come si proponevano di fare le grandi ideologie del Novecento. La strategia di comunicazione contemporanea è volta anzi a demolire la percezione di una verità pubblica, che possa essere accettata da tutti come la realtà. La costruzione di teorie della cospirazione, la raccomandazione di andare sempre oltre l’evidenza dei fatti, la promessa di raccontare quello che «gli altri non vi vogliono dire», finge di stimolare la ricerca razionale, ma di fatto inocula una concezione paranoica nella ricerca e nella lettura delle notizie, che finisce per equiparare fatti e opinioni.

Se la realtà dilegua come referente della riflessione personale, e i meccanismi tradizionali di peer reviewing non sono più accettati come arbitri di credibilità delle informazioni – non resta che il tifo di parte, come criterio di assegnazione della fiducia e di decisione elettorale. La diffusione delle fake news quindi è uno dei motori del dispositivo della propaganda politica: uno dei più efficaci nella generazione di paranoia e nella riduzione della politica a tifo calcistico.

Zuckerberg: no alla censura cinese

A queste obiezioni Zuckerberg reagisce con un’argomentazione di forte stampo ideologico, che costituisce il secondo focus del suo intervento alla Georgetown University. Al contrario di quello che stanno facendo Apple e Tik Tok, Facebook non si piega alle pretese di censura del governo cinese. Zuckerberg non manca di sottolineare che lo zelo delle altre imprese arriva ad eliminare i contenuti vietati da Pechino anche negli altri paesi del mondo, Stati Uniti inclusi.

In realtà nessuno di noi può sapere quale sarebbe stato il comportamento di Menlo Park se la Cina non avesse impedito l’accesso di Facebook dentro i confini della Grande Muraglia; e nemmeno possiamo sapere se Zuckerberg abbia davvero scelto una moglie cinese per riuscire a capire qualcosa di più del gigante economico che lo esclude, proteggendo gli interessi dei concorrenti nazionali come la stessa Tik Tok, o Tencent, o Weibo.

In ogni caso, in questo frangente la sua situazione è di vantaggio rispetto a quelle in cui si trovano Tim Cook e i suoi colleghi cinesi, impegnati a tutelare le loro posizioni nell’area economica amministrata da Pechino.

Va comunque rilevato che eliminare un veicolo di diffusione delle fake news come Facebook non è un sintomo di censura, né garantire il diritto di pubblicizzare menzogne rappresenta un vessillo di trionfo da rinfacciare alla dittatura cinese. Di fatto Zuckerberg si proclama (insieme ai suoi 35 mila moderatori) il decisore di cosa sia verità e cosa no, e di cosa sia libertà e cosa no. Un compito molto più complicato e più serio di quello che emerge dalle sue parole alla Georgetown University.

Altra questione, e anche questa molto più seria, è stabilire se Facebook abbia il potere, e non il dovere editoriale, di stabilire cosa debba essere accettato come verità sociale. Una domanda che impone, a sua volta, un dibattito e una reazione politica urgente.

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