Un certo Milton Friedman

Lo Stato è il soggetto principale dell’esercizio del «potere di compensazione» nei confronti degli oligopolisti. Ma la sua funzione di mediazione tra lavoratori e capitale può essere compiuta attraverso una varietà di soluzioni che dipendono dall’ideologia e dalle tattiche dei partiti e dei leader, che si succedono alla guida delle nazioni. Nel 1952, Galbraith riassume l’antagonismo tra conservatori e progressisti con una chiave di lettura che accondiscende alle condizioni del buon senso – ma che semplifica troppo i termini del problema per poter essere mantenuta nella conduzione effettiva del potere: «Liberalism will be identified with the buttressing of weak bargaining positions in the economy; conservatism – and this may well be its proper function – will be identified with the protection of positions of original power»[1](dove per «potere originario» si deve intendere la forza di negoziazione che ciascuna delle parti ha conquistato con la storia dei suoi successi o insuccessi nella gestione degli affari).

Milton Friedman sembra obbedire allo schema disegnato da Galbraith quando muove le sue critiche al collega nel 1976, lo stesso anno in cui viene laureato Premio Nobel per l’economia dall’Accademia delle Scienze svedese. La sua lettura gli impone però di rovesciare di segno dell’impostazione di partenza, assegnando ai difensori del «potere originario» il ruolo dei progressisti e dei paladini della democrazia. Secondo Friedman, Galbraith in realtà è latore di un’ideologia paragonabile a quello dei Conservatori britannici del XIX secolo, convinti che tocchi all’élite intellettuale il compito di guidare le masse anche nei comportamenti quotidiani. L’atteggiamento progressista può essere riconosciuto soltanto a chi interpreta i meccanismi di autoregolazione del mercato come un dispositivo da proteggere, perché ravvisa in questa autonomia l’espressione della democrazia nella sua essenza. Lo Stato non può mai essere autorizzato ad intervenire sulla struttura dei rapporti commerciali e sulle strutture di produzione e di distribuzione: l’ingerenza dell’amministrazione pubblica equivale sempre ad una restrizione della libertà individuale sul fronte politico, e ad una manomissione dell’efficienza economica sul fronte sociale. Nessuno può pretendere di essere il depositario di una verità sulla forma ideale che dovrebbero assumere i rapporti di mercato, dal momento che le strategie sono appannaggio di decisioni individuali, e che la selezione naturale decreta il loro successo o il loro fallimento. La concorrenza è il dispositivo che recita la parte della selezione naturale in ambito economico; l’unico incarico che deve essere ricoperto dallo Stato è la sorveglianza sul corretto funzionamento di questo meccanismo. Ma, dal momento che si parla di funzionamento, l’unico tipo di controllo che può essere ammesso non riguarda la strutturadel congegno, ma la stabilità della sua funzione. La misura di un’aggressione alla solidità della concorrenza è rilevabile nel welfaredel consumatore – o, in altre parole, nell’aumento senza ragione dei prezzi imposti al pubblico finale per beni la cui qualità tende invece a decrescere.

Galbraith non può condividere né l’impostazione, né i risultati di questa analisi. A più riprese tuttavia si è visto costretto a ribadire la sua posizione a favore della libertà di decisione individuale da parte degli imprenditori sulla strategia di produzione e sull’indirizzo commerciale delle loro società, in risposta alle accuse di accondiscendenza nei confronti del socialismo e di una preferenza per l’interventismo dello Stato nelle scelte di merito delle aziende – su lotti di produzione, procedure di fabbricazione, distribuzione, prezzi. L’insistenza sull’uscita dell’economia del XX secolo dal tracciato di una struttura concorrenziale finisce spesso per consegnare queste dichiarazioni ad un registro di petizione di principio, dal momento che il mercato di per sé non è in grado di assicurare la protezione della libertà di ogni soggetto. Galbraith distingue tra settori in cui l’intervento manageriale diretto dello Stato è plausibile (come accade nel caso dell’energia, o in quello delle infrastrutture di trasporto, dalla ferrovia alle strade), da quelle in cui invece l’amministrazione pubblica non deve operare in prima persona, ma deve limitare la sua operatività a livello di regolamentazione e di sovvenzioni. La distinzione non ha un fondamento teoretico, ma deriva dalla tradizione delle soluzioni effettivamente adottate nei paesi occidentali – con particolare riguardo al caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La storia americana mostra maggiore propensione alla spesa pubblica e alla nazionalizzazione delle imprese nell’ambito militare: la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Corea sono gli esempi che vengono citati con maggiore frequenza. Il contesto britannico invece permette di spaziare su settori più variegati: il governo laburista che si impone a Londra nel secondo dopoguerra, trasferisce alla gestione diretta dello Stato la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, la conduzione delle miniere, il controllo delle ferrovie. Altri settori industriali, come le fabbriche di automobili o quelle di abiti, sono invece rimaste estranee alla gestione diretta da parte dell’amministrazione pubblica. In ogni caso, l’intervento delle scelte politiche si avverte nella variazione della pressione fiscale, nella scelta dei criteri di tassazione, nella crescita o nel contenimento del debito pubblico, produce una serie di conseguenze che fissano un punto di equilibrio per il grado di impiego e per la spinta agli investimenti: il mito che questi tendano spontaneamente alla saturazione completa di tutte le risorse umane occupabili e di quelle finanziarie spendibili (in obbedienza alla Legge di Say), è stato confutato dalla storia.  

Ma soprattutto, il potere di compensazione dello Stato si esercita nella normativa antitrust, e nella decisione su come misurare l’eccesso di potere accumulato nelle mani di pochi soggetti rispetto alla società civile, che ne subirebbe l’influenza.


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