Robert Bork e il paradosso dell’Antitrust

Il saggio di Greenspan era il segno che il vento culturale stava cambiando, per opera soprattutto di un gruppo di economisti (guidati da Milton Friedman e Robert Bork) che si erano insediati alla università di Chicago. L’idea generale era che combattere la crescita di grandi corporation, nel commercio come nella tecnologia e nella finanza, fosse un errore che stava indebolendo il paese. Rapidamente si diffuse una rivolta contro quello che venne visto come “il socialismo del new Deal”, a favore delle grandi corporation.

Le leggi Antitrust andavano attivate quando il comportamento delle aziende danneggiava il consumatiore finale. In caso contrario, l’emergere di grandi campioni dell’industria andava premiato. Era l’epoca in cui stavano emergendo i grandi campioni dell’industria giapponese, e negli Stati Uniti si andava diffondendo il timore di perdere il vantaggio competitivo conquistato nel mondo industriale. Se si dovevano combattere grandi conglomerati come la Matsushita e la Fujitsu, la Sony e la Mitsubishi, era necessario allentare le briglie e fare un uso assai più elastico della legislazione sui monopoli. 

Nel 1968 si riteneva che se un’azienda che controllava oltre il 15% di un mercato voleva incorporare una concorrente con almeno il 3%, questa iniziativa dovesse essere attentamente visionata dal Dipartimento di Giustizia. 

Ma dagli anni Settanta in poi tutto cambia. Nel 1978 Robert Bork pubblica “The Antitrust Paradox”, un lunghissimo saggio che è diventato la nuova bibbia per le autorità Antitrust. Bork, uno dei fondatori della Scuola di Chicago, è stato la star di prima grandezza del settore per mezzo secolo e ha plasmato la cultura dell’Antitrust che è arrivata fino a noi. 

Il paradosso descritto da Bork è semplice: il compito dell’Antitrust non è di proteggere le piccole aziende da quelle più grandi, perché da questa competizione non può nascere che bene, bensì quello di proteggere l’interesse dei consumatori: il “consumer welfare”. Le vecchie idee coltivate nell’era di Roosevelt sugli eccessi di potere e sulla sfida alla democrazia che avrebbero potuto nascere da esagerate concentrazioni di ricchezza sono state spazzate via. Dagli anni Settanta in poi, l’Antitrust deve intervenire solo se da una fusione può seguire un aumento dei prezzi. Altrimenti, meglio seguire una politica di lassez faire, perché il mercato è in grado di autocorreggersi da solo.  È “il paradosso dell’antitrust”: cioè il fatto che le grandi aziende sono generalmente utili all’efficienza dell’economia. Il libero mercato fornisce gli anticorpi che spingono gli oligopoli ad autoriformarsi. 

(E infatti nell’ultimo paper su Google Bork coniuga le sue teorie affermando esplicitamente che siccome “su internet la concorrenza è un clic di distanza”, potrà ben nascere un concorrente in grado di opporsi efficacemente a Google. Penalizzare le pratiche commerciali di Google bollandole come anticompetitive ridurrebbe la competizione nella ricerca, e danneggerebbe i consumatori che le leggi antitrust vogliono proteggere). 

In quegli anni Reagan consente un grande numero di fusioni tra nel mondo dei trasporti, del petrolio, della grane distribuzione, della manifattura. 

Ma se è legittimo aspettarsi da una posizione di «destra» la difesa delle posizioni di potere acquisite. Sembra molto più sorprendente invece trovare Galbraith tra i protagonisti della decostruzione della pressione antitrust. E infatti nel 1992, quando diventa presidente, Bill Clinton dimentica le regole antitrust e consente che in alcuni settori le concentrazioni diventino una regola. Ricorda Matt Stoller su New Republic che, da quando Bill Clinton arrivò alla Casa bianca a oggi, il numero di “prime contractors” del Ministero della Difesa è passato da trecento a cinque. 

Ma forse l’atto più gravido di conseguenze del presiedente Clinton fu l’abolizione del Glass-Steagall Act, consentendo così la fusione delle grandi banche con società di investimento. 

In quanto consigliere del presidente, Galbraith pone in primo piano il ruolo degli oligopoli come principali investitori nel campo dell’innovazione tecnologica. Questo genere di finanziamenti rappresenta l’asset fondamentale per due obiettivi nel successo economico del Paese: la crescita del tasso di produttività, la conservazione del primato internazionale in ambito finanziario e militare. Il potere di compensazione può essere affidato, secondo questo punto di vista pragmatico, al governo e al sindacato con azioni da valutare di volta in volta. Di queste teorie si nutrirono i “new democrats”, personaggi come Gary Hart, Michael Dukakis e Bill Clinton, che in pratica camcellarono la parola monopolio dalla piattaforma elettorale del partito.

Nel 1996, a metà del primo mandato di Clinton alla Casa Bianca, le nuove tecnologie di ambito informatico, che stavano creando il mito planetario della Silicon Valley, cominciano a invertire l’andamento negativo del tasso di produttività, cominciato negli anni Settanta e proseguito nel corso dell’età reaganiana. La spinta alla crescita dell’indicatore ha confortato la strategia di Galbraith fino al 2004, già tre anni dopo la fine della presidenza Clinton; da questa data, il contributo dell’innovazione digitale non è più stata in grado di sostenere l’incremento del tasso di produttività. Alla fine del XX secolo mancava ancora l’esperienza necessari per rilevare la distinzione tra le tecnologie che sono utili allo sviluppo sociale ed economico, e quelle che invece non lo sono. Nel suo studio sullo sviluppo dello stile di vita americano tra la Guerra civile e il 2014, Gordon [2016] ha evideniato la differenza che intercorre tra le invenzioni che hanno insistito sulla creazione delle macchine elettriche, sul motore a combustione interna e sulla medicina – rispetto a quelle che hanno coinvolto il settore informatico, insieme a quello delle telecomunicazioni e dell’intrattenimento. D’altra parte, senza la Grande Depressione del 1929 e il New Deal del presidente Roosevelt, le riforme sociali del lavoro e della sua qualità non sarebbero mai state preparate – e senza questo passaggio, non si sarebbero mai create le condizioni per il boom economico degli anni Quaranta e Cinquanta. Non si sarebbero verificate le circostanze che hanno determinato la richiesta di prodotti per il tempo libero, per il divertimento, per le fasi della vita non occupate dal lavoro; e naturalmente, non si sarebbe nemmeno alimentato il mercato degli strumenti per agevolare il compito professionale del personale assunto. Tutti questi eventi non si sono di nuovo presentati dopo la presidenza Reagan, e in seguito alla sua stretta contro le tutele dei lavoratori e in favore di quella che oggi viene etichettata con la metafora della «flessibilità». L’inasprimento delle differenze sociali, del livello di educazione, della distribuzione dei redditi e delle ricchezze, viene letto da Gordon [2016] come una concausa della crescita effimera del tasso di produttività legato all’innovazione informatica.[


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