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Approfondimenti


Gli assistenti vocali e i due monopoli più grandi della storia

Google Assistant e Amazon Echo non sono due giocattoli da salotto, ma i mattoni fondamentali della strategia con cui i due giganti del web stanno conquistando i mercati locali, creando i monopoli più potenti mai esistiti. (Continua la lettura)

La nuova Apple: tv, giornalismo e finanza

Apple ha annunciato la sua nuova strategia nei servizi: un servizio di streaming tv (Apple TV Plus) per fare concorrenza a Netflix; un servizio di abbonamento a quotidiani e riviste (Apple News Plus) e una nuova carta di credito (Apple Card). È l’ultimo di una serie di annunci, in poche settimane, che mostra come i colossi del web stiano dilagando nel mondo dell’entertainment e della finanza. In particolare: (continua la lettura)

Benvenuti nel capitalismo della sorveglianza

“Come è potuto succedere che i migliori cervelli di questa generazione siano oggi impegnati a farci cliccare su Internet?”. Da tempo questa bizzarra domanda mi frulla per la testa e finalmente ho trovato il libro che aiuta a rispondere. (continua la lettura)


Segnalazioni

Postini o editori?

“I social network sono editori, non postini” è il titolo di un articolo di John Thornhill, opinionista del Financial Times. È un articolo importante, vale la pena di riassumerlo. 
Tutto parte dall’attacco terrorista del 14 marzo alle moschee di Christchurh, in Nuova Zelanda, ai 50 morti, al video inviato via streaming su Facebook, al milione e mezzo di copie di quel video scaricate dal web in 24 ore. E si chiede: perché mai tolleriamo una tecnologia che può essere usata per diffondere odio e violenza alla velocità della luce su una scala globale? La ragione – risponde Thornhill – sta tutta in una frase contenuta in una legge approvata nel 1996 (il Communications Decency Act) approvato dal Congresso Usa nel 1996: “Nessun fornitore di un servizio informatico interattivo può essere considerato né un editore né il responsabile di un’informazione diffusa da un altro fornitore di contenuti”. 
Erano gli anni Novanta, Internet era benedetta come il paradiso della libertà e quelle poche parole stabilirono che le regole che erano sempre state valide per tutti i media tradizionali – giornali e tv – erano da considerarsi carta straccia. Fu come se il Congresso degli Stati Uniti avesse legiferato per tutto il mondo. Il Financial Times e Repubblica continuano a essere legalmente responsabili di tutto quello che diffondono, Facebook, Twitter e Google non lo sono. 

26 parole che hanno cambiato il mondo.Thornill cita un libro appena pubblicato da Jeff Kosseff, The Twenty-Six Words That Created the Internet,  le 26 parole hanno creato Internet, e poi hanno cambiato il mondo, dando il via a una fase incredibile di innovazione e rendendo possibile la crescita di quelle che oggi sono le aziende più ricche del pianeta. Quelle 26 parole hanno consentito una libertà di espressione fino a quel momento inimmaginabile, hanno dato a chiunque il diritto di pubblicare qualunque cosa, ma hanno anche reso possibili – tra le altre cose – campagne terroristiche impensabili nel secolo scorso, e molto altro.
Jacinda Ardern, primo ministro della Nuova Zelanda, dice ora che i grandi del web devono essere considerati editori, non solo postini e devono essere responsabili di quello che pubblicano. Scott Morrison, primo ministro australiano, aggiunge:  “È inaccettabile che Internet sia uno spazio fuori controllo”. 
 
Piattaforme irresponsabili? Fin qui il Financial Times, che – pur essendo un giornale di ispirazione liberale e liberista – è oggi una delle voci più attente nel denunciare gli abusi e i rischi connessi allo strapotere dei grandi del web. Qualcuno, inevitabilmente, protesterà per l’attacco alla libertà di pensiero. Ma credo che quello posto dal Financial Times sia un problema da valutare con cura. Non è ben chiaro perché comportamenti che sono considerati reato nel mondo reale non lo siano in quello virtuale; né perché un giornale cartaceo (oggetto ormai raro) che pubblica un commento offensivo debba finire in tribunale mentre YouTube (che ha centinaia di milioni di utenti ogni giorno) possa diffondere qualunque messaggio senza nulla temere. Alle piattaforme del web è consentito tutto, salvo la promessa di autoregolamentarsi. Gli Stati sono inermi e i governi balbettano di fronte al potere transnazionale di questi giganti. 
Quando un giornale o una tv decidono se pubblicare o meno una notizia, un’immagine o un filmato, si affidano al giudizio umano e alla sensibilità culturale. In questo caso invece la scelta è affidata a un algoritmo. L’interrogativo diventa dunque: dobbiamo difendere la libertà di algoritmo? O gli algoritmi devono essere in qualche modo regolati?

Amazon ci ascolta

Migliaia di persone sono pagate per ascoltare le registrazioni catturate nelle case degli utenti di Alexa, l’assistente digitale di Amazon. Le conversazioni sono trascritte, annotate e usate per migliorare il software di riconoscimento vocale e migliorare la sua abilità nel rispondere agli utenti. La notizia è stata diffusa da Bloomberg, e Amazon l’ha confermata: il sistema viene attivato dall’utente con una parola chiave (generalmente “Alexa”) ma spesso si accende grazie a un rumore di fondo o un suono proveniente dalla tv. A quel punto comincia a registrare quello che avviene in casa, o nell’ufficio. Anche i dipendenti di Google e Apple utilizzano squadre di dipendenti per ascoltare le conversazioni degli utenti con i loro assistenti digitali (Assistant e Siri). Recentemente è saltato fuori che Nest, il termostato di Google, ha un microfono incorporato in grado di ascoltare i rumori della casa in cui è installato. Google si è giustificata dicendo che non si trattava di un segreto: si era solo dimenticata di annunciarlo.

Gli Stati contro l’estremismo del web

Si moltiplicano le iniziative di legge per mettere sotto controllo il dilagare dei contenuti estremisti e delle fake news su Internet. 

L’8 aprile il governo britannico ha pubblicato un Libro Bianco di 102 pagine (Online Harms White Paper) che propone nuove regole per combattere la diffusione della violenza, dell’estremismo e delle fake news su Internet. La proposta prevede la creazione di un’Authority di controllo con il potere di multare e bloccare i siti che non rispettano le leggi, e rende i dirigenti delle piattaforme digitali responsabili in prima persona dei contenuti pubblicati.  
Un grosso giro di vite. È un passo importante che porta a considerare le piattaforme qualcosa di molto simile a editori. Ma l’Economist scrive che la proposta non diventerà legge prima di un paio d’anni. Sempre che il prossimo governo voglia insistere su questa strada. 
Matt Hancock, ministro della Sanità britannico, è arrivato a minacciare le piattaforme di essere oscurate se non si dimostrano in grado di rimuovere i contenuti pericolosi. 

L’Australia ha approvato una legge (Sharing of Abhorrent Violent Material bill) che prevede multe per i social network (e il carcere per i dirigenti) se i materiali illegali non vengono rapidamente rimossi dalle piattaforme. 
Singapore e in India sono state avanzate proposte di legge per impedire la diffusione di informazioni false.

La Germania ha già approvato una legge contro la diffusione dei “contenuti di odio”. 

Il Financial Times scrive che, comunque vada, l’Internet fondato sui principi libertarian della Silicon Valley è giunto a fine corsa. È necessario costruire un nuovo consenso. Ma in un ambiente in così rapido cambiamento le nuove regole devono essere non permanenti e aperte al dialogo tra le parti. (In altri termini: i parlamenti devono cambiare passo e darsi una regolata).

Internet spezzata in tre?

Su The Verge Casey Newton dice che se la legge sul copyright non sarà modificata “l’intero Internet potrebbe somigliare sempre più a Netflix, la cui offerta di contenuti varia in modo sostanziale da paese a paese”.  Oggi Internet è divisa in due, da una parte il mondo libero e dall’altra la Cina e le altre dittature. La nuova normativa – secondo Newton – contribuirà a spezzarla in tre, separando l’Europa dagli Stati Uniti. 
La nuova Direttiva sul copyright consente gli editori (articolo 13) di far pagare le piattaforme per le citazioni degli articoli linkati; e impone ai siti (articolo 17) regole stringenti per eliminare i contenuti illegali e impedire agli utenti di scaricarli.