Esisteva già invece l’etica hackere il regno dei nerdin cui essa era sorta: ma si trattava ancora di fenomeni di nicchia, relegati tra le comunità che frequentavano le prime bacheche elettroniche e i primi forum. I loro membri si sentivano mossi da uno spirito pionieristico, paragonabile a quello dei coloni che secoli prima si erano spostati dalla costa atlantica per prendere possesso del lontano (e selvaggio) West. Il fatto che la maggior parte di loro risiedesse negli stati occidentali, in particolare in California, Texas, Utah, incrementava la sensazione di continuità tra antenati allevatori o agricoltori, e moderni tecnici o appassionati di informatica. In qualche modo, l’appartenenza alle comunità virtuali delle origini era una questione di elezione spirituale: negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, le connessioni alla Rete erano rare e la loro utilità poco chiara. Come presso le carovane e i villaggi dei coloni, l’ideologia dominante è quella del primato della comunità locale (in senso geografico per l’Old Wild West, riconducibile alla registrazione su un server di forum, per i gruppi virtuali della modernità) rispetto alle istituzioni statali – e, peggio ancora, federali. Ogni collettività si considera un insieme indipendente, che può (e deve) sviluppare in modo autonomo regole di convivenza, modalità di relazione – e soprattutto, processi di welfare, di aiuto reciproco, di intervento efficace. I membri di ogni comunità avvertono una sorta di eccellenza per il clan cui appartengono, e di fierezza per la propria iscrizione ad esso. Nell’etica hackerrisuona sempre questa nota di eminenza che spetta al gruppo, e per riflesso, all’individuo che ne è affiliato. Lo si distingue bene anche nel manifesto redatto da Zuckerberg per descrivere la missione Facebook – che a sua volta è una galassia di comunità virtuali, creata e gestita da una comunità hackerche rispettano e professano l’etica hacker.[1]
Si doveva aspettare il successo di Steve Jobs come personaggio, oltre che come uomo di affari, per raggiungere lo sdoganamento della figura del nerd e celebrare i suoi trionfi contemporanei: quelli che permettono a Mark Zuckerberg di presentarsi da Bloomberg in jeans e felpa per presentare uno dei più grandi colossi della finanza contemporanea, e piegare il pubblico di Wal Street all’inchino davanti al vincitore. Negli anni Novanta una scena del genere era ancora impensabile, e la sagoma dei presidenti disegnava ancora l’unico modello di successo accettato per la cultura dominante: l’atleta che all’università (della Ivy League) miete più successi nello sport e con le ragazze, rispetto ai voti agli esami. Nulla di più lontano dai nerdchiusi nelle loro stanze davanti ad un computer, che conversano attraverso un alfabeto incomprensibile di stringhe di comandi con altri nerdnascosti chissà dove, in altre stanze polverose e senza finestre. Rheingold E Kelly hanno celebrato gli anni della gestazione della cultura hackernei loro primi libri, in cui hanno osservato il modo in cui la delusione per la rivoluzione politica mancata degli anni Sessanta e Settanta, si introverte nel sogno di una democrazia elettronica, gestita attraverso i canali digitali delle comunità virtuali. WELL, nata nel 1985, in piena epoca reaganiana, è la più grande di queste realtà elettroniche.
Questa è la cultura dominante negli Stati Uniti quando nasce il web, all’inizio degli anni Novanta. E il web che oggi conosciamo è figlio di quella cultura.
L’8 febbraio 1996 Johnny Perry Barlow pubblica la sua “Declaration of Independence of the Cyberspace” che riletta oggi fa quanto meno sorridere.
“Governi del Mondo Industriale, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranitàsui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto, è anche probabile che non ne avremo alcuno (…). Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo èper sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere”. “Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito”. Ancora: “In Cina, Germania, Francia, Russia, Singapore, Italia e Stati Uniti, state cercando di tener lontano il virus della libertà erigendo posti di guardia ai confini del Cyberspazio. Questi potranno controllare il contagio per un po’ di tempo, ma poi non potrà funzionare in un mondo in cui i bits si insinueranno dappertutto. Le vostre industrie dell’informazione diventando obsolete, cercano di perpetuarsi proponendo leggi, in America e altrove, che affermano di possedere facoltà di parola in ogni parte del mondo. Queste leggi dichiarano che le idee sono dei prodotti industriali, meno preziosi della ghisa. Nel nostro mondo, tutte le creazioni della mente umana possono essere riprodotte e distribuite infinitamente a costo zero. La convenienza globale del pensiero non ha più bisogno delle vostre industrie”.
Non è un caso che la Dichiarazione sia stata lanciata a Davos, il luogo dove ogni anno si riuniscono i potenti del mondo.
Nel 1998 Kevin Kelly, cofondatore e direttore della rivista Wired, scrive[3]: “Questi nuovi monopoli sono diversi (da quelli del passato, ndr) sotto molti aspetti. Mentre i monopoli tradizionali controllavano le merci, oggi “il predominio consiste non tanto nel monopolizzare un singolo prodotto, quanto nel prendere il controllo, uno dopo l’altro, di tutti i fili della ragnatela tecnologica. (mentre un tempo) il venditore unico (…) poteva spingere i prezzi al rialzo e la qualità al ribasso”, “è intrinseco alla logica della rete abbassare i prezzi e alzare la qualità, anche nel caso di un singolo venditore monopolista”.
Brian Arthur (Santa Fe Institute) lo chiama “effetto dei rendimenti crescenti”.
Kevin Kelly spiega così l’economia del gratis (p. 75): “se beni e servizi aumentano di valore nel momento in cui diventano più abbondanti e se acquistano più valore diventando più economici, allora (…) le cose di maggior valore dovrebbero essere quelle onnipresenti e gratuite. Domanda: “in relazione ai costi, qual è il modo più efficace per raggiungere l’onnipresenza?”. Risposta: “Regalate le cose, rendetele gratuite”.
In quegli anni collegandosi alla rete gli utenti possono scaricare gratuitamente browser (Netscape, Internet Explorer) programmi per spedire email (Eudora), antivirus (McAfee), programmi operativi (Java), e soprattutto una valanga di articoli gratis dai siti dei giornali. Alcuni regalavano i telefoni cellulari per poter vendere i servizi collegati. (Pag 77): “Regalare le cose è quindi un modo per catturare l’attenzione umana, o almeno quella porzione di mente che poi porta alla conquista di una quota di mercato”. (Kevin Kelly)
Scrive T.G.Lewis[: “La seconda metà del XX secolo è come il tardo Settecento. La rivoluzione è dappertutto e la comprensione è scarsa. L’economia di Adam Smith è finita. L’economia di Maynard Keynes sta morendo. E l’economia della friction-free economysta arrivando”.
Ecco la parola chiave Friction free economics, letteralmente economia senza attriti. Dove non ci sono intermediari, il consumatore può avere ogni informazione sui prodotti, la concorrenza è perfetta, i prezzi scendono al minimo…
Trionfa il concetto di personalizzazione. Si discetta di “maggiordomi elettronici”, piccoli software che conoscono ogni nostro gusto che percorrono il web per trovare ogni cosa possa interessarci: amicizie, merci, articoli, libri. Nicholas Negroponte lancia il concetto di Daily me, il giornale personalizzato che ciascuno apre ogni mattina accendendo il computer e dove trova esclusivamente informazioni che interessano a lui.
In quella cultura dominata dal neoliberismo e dall’ossessione dei bisogni individuali nasce la cultura del web, che è naturalmente pervasa da esigenze di totale libertà.
Il simbolo dell’epoca è una vignetta pubblicata dal New Yorker (il 5 luglio 1993), che rappresenta due cani davanti a un computer: “On the Internet, nobody knows you’re a dog”, su Internet nessuno sa che sei un cane. In pochi tratti di penna Peter Steiner, uno dei più noti disegnatori del New Yorker, ha condensato – con sottile e profonda ironia – uno dei punti chiave del mondo che stava nascendo.
Internet è il regno della libertà assoluta, nessuno ti può seguire, l’anonimato viene strenuamente difeso, le leggi valide nel mondo normale perdono significato, si rifiuta l’idea di imporre tasse alle attività che si svolgono in rete, gli utenti possono sbizzarrirsi a dire qualunque cosa, i siti che ospitano i commenti non sono responsabili. E gli utenti? Non si sa chi siano. “Su Internet nessuno sa che sei un cane”, uno slogan che va preso alla lettera.
È il mondo perfetto per i libertarian alla Ayn Rand.
È il mondo dove cresce la cultura di personaggi come Peter Thiel (uno dei fondatori di PayPal) e di Raymond Kurzweil (oggi ingegnere capo di Google, di cui parleremo in seguito.
È anche la cultura in cui, nel 1994, un imprenditore di Seattle, Jeff Bezos, fonda Amazon.