Nei primi anni Novanta, quando Internet cominciò a essere usata anche al di fuori dei circuiti universitari, i due autori di questo libro – che allora non si conoscevano – si fecero subito ipnotizzare dalla nuova moda. Uno dei due aveva da poco superato i quarant’anni, era giornalista presso un settimanale romano e aveva una predilezione per la tecnologia. L’altro – appena ventenne – studiava filosofia all’università di Milano e aveva la passione dell’epistemologia. Due persone diversissime per età, estrazione e cultura. Entrambi però – venne fuori anni dopo, quando ci conoscemmo e cominciammo a discuterne – fummo subito colpiti da una cosa: in giro c’era un sacco di gente che predicava la nascita di un nuovo mondo pieno di meraviglie e metteva in giro un sacco di sciocchezza.
Erano i tempi in cui circolava gente come Johnny Perry Barlow che nel 1996 pubblicò la sua “Declaration of Independence of the Cyberspace” che tra le altre cose diceva:
“Governi del Mondo Industriale, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranitàsui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto, è anche probabile che non ne avremo alcuno (…). Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo èper sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere. (…) Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito”.
Oggi qualcuno dirà che erano solo parole in libertà di fronte a un fenomeno (Internet) di cui ancora nulla si sapeva e di cui non si riusciva a intravedere il futuro, ma quelle parole – insieme a milioni di altre che furono versate in quegli anni sul potere taumaturgico della rete e il mito della libertà assoluta sul web – contribuirono non poco a creare l’ambiente ecologico all’interno del quale si sviluppò l’economia digitale. In effetti, in quegli anni di Internet si capiva pochissimo, anche se in parecchi pensavamo che era una cosa importante. Tutti discettavano della nuova economia del web, ma nessuno capiva che cosa volesse dire: economia vuol dire business, fatturati, profitti, mentre nei primi anni nessuno sapeva come fare per “monetizzare” l’attività sul web, a parte le società di telecomunicazioni che facevano pagare il collegamento. Nacquero idee balzane contrabbandate per colpi di genio: per esempio si diffuse l’idea che la valutazione in borsa di un’azienda web dovesse essere calcolata sulla base da quante pagine venivano “viste” dagli utenti, anche in totale assenza di introiti. Perché – anche questo si diceva – l’economia del web era completamente diversa da quella tradizionale, e anche il valore delle cose doveva essere calcolato in maniera differente: niente più rapporto tra profitti e fatturato, ma “pagine viste”. Ci credettero in molti: se la “new economy” doveva essere “new”, i tradizionali “fondamentali” per valutare le aziende dovevano essere ignorati!
Ci volle l’esplosione della bolla speculativa del 1999 per riportare un po’ di razionalità in quel mondo e l’economia alla ragionevolezza. Ma su un punto non ci fu niente da fare: sulla libertà del web non si discuteva. L’esercito dei visionari della Silicon Valley aveva il suo messaggio da portare al mondo e la libertà non era negoziabile. Il web era il Nuovo Mondo, e guai a chi parlava di regole! Il web era la libertà, la prateria, il regno della creatività e dell’uguaglianza, il luogo della democrazia sociale, dove ciascuno poteva esprimersi senza i lacci e i lacciuoli imposti dalla società tradizionale. Se nel mondo vero era proibito circolare con un cappuccio nero in testa ed era naturale che un poliziotto verificasse l’identità delle persone, in quello digitale si doveva poter mantenere l’anonimato pur circolando liberamente per leggere, commentare, pubblicare foto. Chiunque proponesse regole per il web veniva trattato come un fascista, e chiunque volesse imporre tasse alla new economy che stava sorgendo veniva accusato di voler strangolare il bambino nella culla. Non si poteva fare nulla. Bisognava stare fermi a guardare la nuova pianta che cresceva, senza poter neanche immaginare di poterla potare qua e là per guidarne lo sviluppo.
Molti, avendo letto questa prefazione fino a qui, si saranno convinti che stiamo parlando del passato, di un’ubriacatura che accadde venti-venticinque anni fa e da cui poi ci siamo ripresi dopo una bella dormita. Sbagliato. In questo quarto di secolo abbiamo continuato a ubriacarci senza alzare un dito per dare una direzione a quello che stava accadendo sul web e oggi le grida di allarme – pur isolare – si levano sempre più alte. Qualche esempio?
L’Economist, in un’inchiesta di copertina pubblicata il 4 novembre 2017, si chiede se i social network stiano minacciando la democrazia. Nel novembre 2017, a Lisbona, la commissaria europea Margrethe Vestager ha trasformato quell’interrogativo in un’affermazione categorica: i grandi dell’high tech – ha detto – sono una minaccia per il tessuto democratico. Andando avanti in un elenco che potrebbe non finire mai, Rana Foroohar, opinionista del Financial Times, ha spiegato perché sia necessario “regolamentare” le piattaforme digitali. Brian Bergstein, su Technology Review, ha invocato nuove norme per consentire alternative a Facebook. Daniel Kishi (su “The American Conservative”) ha auspicato la crescita di un movimento dei conservatori contro i nuovi monopoli digitali. Ev Elrich (su Usa Today) ha sottolineato l’urgenza di rompere il monopolio di Google, Facebook e Amazon. Nick Srnicek (sempre sul Guardian[), ha chiesto addirittura di nazionalizzare Google. Il 16 maggio, nel corso di una Conferenza indetta dal Partito Democratico americano, la senatrice Elizabeth Warren (in prima fila tra i candidati alle prossime presidenziali) ha detto che “è tempo di tornare a fare quello che fece Teddy Roosevelt (all’inizio del secolo scorso, ndr): riprendere di nuovo in mano il bastone dell’Antitrust”.