La prevede il direttore del New York Times. Secondo lui l’attuale modello di business non consente più la loro sopravvivenza. Il mercato italiano sembra dargli ragione. I nostri giornali locali hanno perso oltre la metà delle copie dal 2008, quelli più grandi i due terzi. Quanto potranno resistere prima di chiudere? E soprattutto, perché nessuno ne parla?
Qualche giorno fa, nel corso del Congresso mondiale della International Media Association, il direttore del New York Times, Dean Baquet, ha detto una cosa che è rapidamente scivolata nel silenzio: “La più grande crisi nel giornalismo americano è la morte dei giornali locali. Non so quale sia la risposta. Il loro modello economico è andato. Credo che la maggior parte dei giornali locali in America sia destinato a morire nei prossimi cinque anni, a parte quelli che sono stati comprati da un miliardario locale”.
Vent’anni fa, quando spuntarono le prime avvisaglie della crisi dei giornali, si diceva che bisognava individuare un “nuovo modello di business” per il mondo digitale. Ma nessuno (se si eccettuano pochi grandi giornali di respiro internazionale) lo ha finora trovato. E a questo punto c’è da chiedersi se questo modello alternativo davvero esista o se dobbiamo arrenderci alla (drammatica) scomparsa dei giornali locali come li abbiamo conosciuti fino a oggi.
Le cause della crisi sono ormai note: il calo drastico delle copie vendute, il conseguente crollo della pubblicità (che sul web migra verso Google e Facebook) e lo scarso numero di lettori che scelgono di pagare un abbonamento alla versione digitale dei giornali. Il problema denunciato da Basquet non vale solo per gli Stati Uniti, e dando un’occhiata al mercato italiano c’è da chiedersi se la sua previsione non sia persino ottimistica.
I dati in Italia
Ho fatto la somma delle copie vendute dai giornali locali italiani (oggi sono 42) secondo i dati forniti da Ads (Accertamenti diffusione stampa) nel gennaio del 2000, 2008 e 2019. Ecco i risultati:
- 2000: 2,3 milioni di copie
- 2008: 2,o4 milioni
- 2019: 968 mila (aggiungendo le copie digitali si arriva a 1,07 milioni).
Il calo si avvertiva già nei primi anni del secolo, ma dopo il 2008 è accelerato e nell’ultimo decennio le vendite complessive sono più che dimezzate.
All’interno di questo panorama, di per sé già drammatico, i più colpiti sono i giornali locali tradizionalmente più forti. Ecco alcuni esempi:
Il Messaggero di Roma: 294 mila copie nel 2000, 201 mila nel 2008, 82 mila nel 2019.
Il Secolo XIX di Genova: 122 mila nel 2000, 105 mila nel 2008, 36 mila nel 2019.
Il Mattino di Napoli: 100 mila copie nel 2000, 75 mila nel 2008, 28 mila nel 2019.
La Gazzetta del Mezzogiorno: 57 mila nel 2000, 52 mila nel 2008, 17 mila nel 2019.
Quotidiano Nazionale (Il Giorno, La Nazione e il Resto del Carlino): insieme i tre giornali nel 2000 vendevano 422 mila copie, nel 2008 erano 374 mila, oggi sono 199 mila (compreso il Telegrafo, una new entry che vende circa mille copie).
In sintesi: da oltre un decennio, ogni anno i quotidiano locali, che fino a ieri presidiavano le grandi città italiane, perdono tra il sei e l’otto per cento delle copie e si stanno avviando all’irrilevanza. Anche perché il numero degli abbonamenti digitali è irrisorio e non è chiaro come si potrebbe spingere i lettori a metter mano al portafogli.
Le cause di questo fenomeno sono strutturali e difficilmente possono essere combattute. Quando parlo di questo processo che sta ammazzando i giornali vedo grande scetticismo nei miei interlocutori. Di che cosa ci dobbiamo preoccupare? Un tempo, mi sento dire, acquistavamo il giornale non solo per leggere le news, ma per molte altre motivazioni: il tabellone dei cinema, la piccola pubblicità, le verifica dei nati e dei morti, i risultati sportivi di una varietà di discipline… Tutte queste motivazioni sono state cannibalizzate da Internet. E anche le notizie ci arrivano comunque, gratis, sullo schermo del cellulare nell’inarrestabile processo di personalizzazione che stiamo vivendo. E allora, perché ci disperiamo per la morte dei giornali locali?
Nell’indifferenza collettiva
La risposta è ovvia, ma sembra non interessare né l’opinione pubblica né la politica. I giornali locali sono sempre stati l’elemento aggregante delle città, il punto attorno a cui ruotava la comunità locale, la tribuna che diceva quali erano le cose importanti e quelle marginali, che dava il ritmo alle discussioni che avvenivano nei salotti di casa e al bar. Soprattutto, i giornali (in particolare quelli locali) hanno sempre avuto un ruolo insostituibile nel controllo del potere, di qualsiasi potere, dalla politica alla magistratura, dalla sanità alla finanza, dalle università alla pubblica amministrazione. Perché la solidità della libera stampa è un elemento indispensabile a una democrazia sana.
La morte dei giornali locali significa che in una città non ci sono più giornalisti che consumano le scarpe nei corridoi dei Palazzi di Giustizia, dei consigli comunali e regionali, delle aziende piccole e grandi, per trovare notizie, consultare fonti, verificare soprusi e inadempienze. È uno stillicidio che è già in atto perché tutti i giornali, colpiti dalla crisi, stanno falcidiando gli organici e spesso mi trovo davanti ad amici che hanno qualche ruolo nella politica, o nella pubblica amministrazione o nelle libere professioni, che mi chiedono perché un tempo ricevevano spesso la telefonata di un giornalista in cerca di notizie o di verifiche, e oggi quell’evento è diventato raro. La risposta è semplice: i giornalisti stanno svanendo, sempre più occupati nel lavoro di macchina, sempre più impegnati – per mancanza di tempo – a cercare notizie online. Un tempo si diceva che il rapporto corretto tra giornalisti e copie vendute era di mille a uno: un giornale che vendeva 100 mila copie poteva mantenere cento giornalisti. Oggi questo dato è squilibrato per tutti i giornali che abbiamo citato, ovunque i giornalisti – nonostante i tagli degli ultimi anni – sono troppi rispetto al fatturato, e gli editori sono più impegnati a tagliare che a inventare nuove iniziative.
Certo, mentre i giornali locali annegano sorgono come funghi piccoli giornali digitali, fondati da persone di buona volontà. Ma si tratta quasi sempre di minuscole organizzazioni formate da pochi ragazzi pagati poco o niente, obbligati a fare copia-incolla delle notizie dei giornali maggiori che ancora resistono, o a riscrivere i comunicati stampa che ricevono nella loro casella di posta.
Da anni si sente dire che i giornali devono trovare un nuovo modello di business in questo deserto che molti chiamano “nuova ecologia mediatica”. Ma un quarto di secolo dopo la nascita di Internet questo modello è stato trovato solo per alcuni giornali che hanno una platea mondiale, e pochissimi grandi giornali nazionali. Per i giornali locali, ha ragione Basquet, questo modello non esiste. Quanto potranno resistere giornali storici come il Secolo XIX o il Messaggero, Il Mattino di Napoli o il Giorno, se le vendite e la pubblicità continueranno a scendere al ritmo attuale?
Soluzione tedesca
Soluzioni certe non ne esistono, ma in altri paesi si nota un maggiore dinamismo. In Germania – solo per fare l’ultimo esempio – i quattro maggiori editori nazionali (ne diamo conto nella nostra newsletter) hanno stretto un accordo per combattere lo strapotere di Facebook, Google e Amazon nel mercato pubblicitario con l’obiettivo di riprendere il controllo degli investimenti pubblicitari con un’unica centrale, combattendo direttamente le piattaforme. Unendo le forze i quattro gruppi puntano ad offrire agli investitori (a partire dal 2020) una capacità di targhetizzare gli utenti simile a quella dei colossi digitali, in un momento in cui cresce, da parte delle aziende, il timore di fare investimenti pubblicitari in piattaforme che veicolano notizie senza distinguere le vere dalle false. I gruppi editoriali, al contrario, con la forza del loro marchio, sono una garanzia contro le fake news. È difficile dire se questa iniziativa funzionerà, ma creare un fronte comune degli editori che generano contenuti contro le piattaforme che campano sui contenuti altrui sembra un tentativo coraggioso, piuttosto che assistere inoperosi alla lenta asfissia del settore.
La morte dei giornali è una tragedia in corso di cui nessuno sembra preoccuparsi. Al contrario, i partiti e i movimenti che oggi vanno per la maggiore sembrano rallegrarsene: ci sarà pure una ragione.