La “libertà di web” di cui abbiamo goduto per un quarto di secolo ha prodotto i monopoli più potenti della storia dell’umanità. Ma c’è un paradosso che accompagna l’evoluzione del mondo digitale. Da un lato le élites internazionali (giornali, intellettuali, un numero crescente di politici) stanno mettendo sotto processo i giganti dell’high-tech per difendere dal loro crescente potere i cittadini. Dall’altra i cittadini sembrano di tutt’altro avviso: i servizi forniti dalle aziende digitali hanno un altissimo gradimento e la discussione sui freni da porre al loro crescente potere non interessa più di tanto. Le élites culturali vogliono difendere il popolo, ma il popolo non sembra interessato a essere difeso da élites sempre meno amate.
Mentre gli esperti si sbracciano indicando i pericoli connessi al nuovo capitalismo digitale, l’opinione pubblica appare del tutto ignara e inconsapevole. Contenta e beata, verrebbe da dire, a godersi i servizi – spesso gratuiti – offerti in rete dalle grandi corporation. Perché questo scollamento?
Il fatto è che il meccanismo creato dalle piattaforme provoca una distorsione del tutto nuova nel rapporto tra potere economico e cittadini. Un tempo questo rapporto era da uno a molti. Oggi è uno a uno. Il consumatore viene seguito, studiato, blandito nei suoi desideri, accontentato. Google facilita le nostre ricerche online, anticipa i nostri desideri pre-scrivendo l’indirizzo dei siti a cui vogliamo accedere, suggerisce proposte sui prodotti a cui potremmo essere interessati, ci fornisce un menu di news costruito a misura di ciascuno di noi. Amazon ci propone merci centrate sulle nostre preferenze. Facebook asseconda i nostri desideri mostrandoci i post più graditi sulla base di un’analisi accurata delle scelte passate e ci colpisce con messaggi pubblicitari incredibilmente personalizzati.
La capacità di gestire la connessione con il mondo di ciascuno di noi fornisce alle piattaforme un potere inedito nel monitorare e determinare le nostre idee e la nostra visione del mondo. Grazie ad algoritmi continuamente aggiornati, le piattaforme non solo selezionano i messaggi da fornire a ciascuno grazie a un’attività puntiforme che è totalmente incontrollabile. È stato necessario l’intervento di una commissione del Congresso per obbligare Facebook a rendere noti i contenuti dei messaggi pubblicitari pagati con finanziamenti di fonte russa nel corso della campagna per le presidenziali del 2016. Mentre l’attività editoriale e pubblicitaria dei giornali e delle televisioni è sottoposta a regole precise e si svolge alla luce del sole, quella delle piattaforme non solo non è regolata, ma è oggi incontrollabile.
Le grandi corporation digitali esercitato un controllo totale e riservato del rapporto che intrattengono con ogni singolo utente. Sono in grado di valutare la “customer satisfaction” in tempo reale. Non devono rendere conto a nessuno dei dati memorizzati, dei messaggi pubblicitari inoltrati agli utenti, dei test effettuati. L’opinione pubblica è per loro un campo di sperimentazione esclusivo, privo di regole, protetto dal diritto alla riservatezza. Non c’è da stupirsi se – al contrario di quanto accadeva con l’industria tradizionale – gli utenti non provano rabbia nei confronti delle grandi corporation digitali.
Cass Sunstein sostiene[che Internet (grazie alle piattaforme) esalta la libertà del consumatore (fornendogli tutte le informazione che egli richiede) ma soffoca la libertà del cittadino (negandogli le informazioni di cui ha davvero bisogno) perché lo rinchiude nella gabbia delle idee che ha già e non gli consente di scoprire visioni del mondo alternative. Gli algoritmi che decidono la dieta mediatica di ciascuno di noi ci suggeriscono letture che ci proteggono da ogni dialettica. Sunstein dimostra, con evidenza empirica, che su Internet le persone che si immergono all’interno di una comunità culturalmente omogenea alla fine avranno sempre le stesse opinioni, solo un po’ più estreme. Questo meccanismo perverso provoca una “polarizzazione di gruppo”, che è forse la principale responsabile degli estremismi che proliferano sul web.
Il meccanismo è diabolico perché l’utente, sentendosi in una situazione di totale controllo delle proprie scelte, tende a sottostimare il ruolo dell’infrastruttura nel determinare i messaggi a cui è esposto e il suo modo di pensare. Tutte le persone con cui i due autori hanno parlato di questo problema hanno reagito affermando che il rischio di restare imprigionati in una bolla mediatica – ammesso che esista – riguarda solo gli altri. La percezione individuale suggerisce che l’infrastruttura creata dalle piattaforme consenta la piena libertà, fornisca servizi utili e gratuiti, aumenti la capacità di ogni individuo di ottenere informazioni, sviluppare rapporti sociali, acquistare beni in modo efficiente, rintracciare nicchie di mercato altrimenti introvabili e così via. L’immaginario di ogni singolo individuo si plasma in base alla percezione del proprio potere all’interno della rete. È esattamente come aveva teorizzato Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.
Quando l’Economist scrive che “la moderna industria dell’entertainment è un Nirvana per i consumatori” indica che le piattaforme, grazie alla conoscenza sempre più raffinata di ogni singolo utente, riescono ad appagare ogni loro desiderio. E questo ha ovviamente un ruolo decisivo nel determinare l’opinione che i singoli individui hanno dell’infrastruttura digitale.
Richard R. John, docente di Storia e Comunicazione alla Columbia University, sostiene che “nella sostanza ai cittadini, sui temi economici, importa più la convenienza dell’ideologia: se un monopolio funziona bene e offre buoni servizi, allora monopolio sia”. E siccome ogni piattaforma, grazie ai dati accumulati sugli utenti, diventa sempre più efficiente nel settore in cui opera, questo porta a considerare giusto e opportuno che l’economia delle piattaforme digitali sia popolata da monopoli naturali. Tutto ciò ha conseguenze assai profonde sulla nostra cultura collettiva”.
Alex Moazed e Nicholas L. Johnson sostengono, con una buona dose di ironia, che le piattaforme digitali realizzano (almeno in parte) l’utopia socialista realizzando una gigantesca economia pianificata a livello centrale. Cos’altro sono Facebook, Twitter e Google se non economie centralizzate che servono miliardi di persone? Il problema è che il “central planner” non è più lo Stato sovietico, ma un algoritmo gestito da aziende private.
Peter Thiel, fondatore di PayPal e personaggio influente dell’amministrazione Trump, prende sul serio questa ipotesi e porta il ragionamento alle estreme conseguenze: secondo lui le piattaforme digitali dimostrano che la cultura della competizione, un’ideologia che ha permeato la nostra società per decenni, è una sciocchezza: in realtà, capitalismo e competizione sono l’uno l’opposto dell’altro; i monopoli sono l’anima del capitalismo, mentre la competizione (che non consente l’accumularsi di grandi capitali) è “per i perdenti”. In questo modo Thiel non esprime solo un’opinione largamente condivisa nella Silicon Valley, ma propone uno dei capisaldi della nuova cultura che i padroni delle piattaforme vogliono diffondere.
Negli anni Novanta, quando in molti credevano alla favola utopica dell’Internet come regno della libertà, uno dei termini magici di quell’ideologia dominante era “disintermediazione”. La rete avrebbe eliminato tutti gli intermediari (a quei tempi intesi come parassiti) liberando l’economia da inutili orpelli. Vent’anni dopo quella profezia si incarna nelle macerie di molti corpi intermedi (dai media ai partiti tradizionali) e i vincitori (le piattaforme) possono rivolgersi direttamente ai cittadini, saltando qualunque intermediario, occupando una porzione sempre maggiore del nostro tempo e della nostra attenzione. Si tratta di un tragico paradosso. Abbiamo rinunciato agli intermediari tradizionali per affidarci a pochi, unici, potenti intermediari digitali che hanno vinto la battaglia per ottenere la nostra attenzione.
Tim Wu sostiene che in questo processo – sia come società sia a livello individuale – abbiamo accettato un’esperienza di vita che in tutte le sue dimensioni – economiche, sociali, politiche – sono mediate (cioè intermediate) come mai era avvenuto prima nella storia umana. L’industria vincente – quella dei mercanti dell’attenzione – ha invaso la nostra vita e ha costruito un business che può essere descritto così: influenzare la nostra coscienza e palmare radicalmente la nostra esistenza. È la natura stessa delle nostre vite che è in gioco, dice Tim Wu. Ma questo non sembra interessare nessuno. Rivolgendosi direttamente al popolo, le piattaforme digitali plasmano a loro piacere l’immaginario collettivo.
È probabile che la mancanza di una reazione apprezzabile da parte dell’opinione pubblica di fronte a questa dittatura vorace ma apparentemente benigna sia dovuta alla rapidità del cambiamento a cui stiamo assistendo. Nonostante le numerose grida d’allarme che si levano qua e là nel mondo, manca ancora una sedimentazione culturale che consenta di “leggere” il nuovo dilagante potere economico, e i suoi effetti globali sulle disuguaglianze, la cultura collettiva, la politica. Ma sarebbe bene cominciare a studiare il problema più a fondo, e a discuterne.